L’oscena borghesia accanto a Marchionne

Categoria: Italia

I capitani non coraggiosi fanno a gara nell’apologia di Marchionne dopo averlo lasciato solo nelle sfide decisive. Come nasce e cos’è l’isolamento scandaloso di un establishment italiano condannato al consociativismo

di Giuliano Ferrara, 24.7.2018 da www.ilfoglio.it

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C’è qualcosa di penoso nel chiacchiericcio da capezzale su Sergio Marchionne, e non si limita alla pena di chiunque per chiunque sia in una situazione clinica disperata, che dovrebbe essere una partecipazione presupposta al dolore comune di vivere e morire. C’è qualcosa di inautentico, di sghembo e di malamente paradossale. Sembra che la divisione, fatta anche di parole aspre e irrituali in casi come questi, passi per i confini tradizionali della lotta di classe secondo la sua impostazione dei due secoli trascorsi, l’Ottocento e il Novecento: l’interesse degli azionisti da una parte, l’interesse dei lavoratori dall’altra.

Improvvisamente del capo Fiat che ha salvato la ditta e l’ha rilanciata come poteva, stupendo tutti per l’efficacia nella salvaguardia di lavoro e tecnica e capitali, si dice nulla se non cose buone, nihil nisi bonum. E’ la tendenza apologetica, forte nelle tribune della buona borghesia (e a più giusto titolo nei campioni dell’economia liberale, dei mercati aperti e del riformismo industriale e finanziario). Dall’altra parte la tendenza critica, con punte di esacerbato rancore sociale. Qui l’infermo che non può tornare è raccontato come campione di un azionista che sarebbe il solo beneficiario, e finanziario per di più, della sua pretesa rivoluzione industriale, mentre lavoratori e patria della Fiat vengono traditi nei diritti e nella italianità dell’impresa ormai ricollocata a Detroit e altrove.

Qui, in questo rinfocolamento polemico su linee inesistenti, Sergio Marchionne c’entra poco, se non per il fatto ovvio che è stato un manager designato da azionisti verso i quali era intanto il primo responsabile, e non un capo sindacale, sebbene sia da vedersi quanto di meglio avrebbero fatto i cultori del corporativismo sindacale nell’operazione di salvezza di un’azienda automobilistica fallita. Gli azionisti nel capitalismo designano i manager, li ingaggiano, li pagano e ascoltano i loro rendiconti su debiti e produzione e piani di azione industriale dopo aver affidato loro il potere di direzione sull’azienda che posseggono. Nel sistema del Gosplan questo ruolo è rivestito dallo stato, dal partito, e l’assetto socialdemocratico e liberale del capitalismo contemporaneo ha avuto una storia di successo, in mezzo a mille traversie e ingiustizie, perché è evidentemente migliore, più idoneo a produrre ricchezza e a distribuirla, più capace di organizzare lavoro e tecnica. Nella loro originalità che non è però un modello di organizzazione sociale da copiare, immagino, i cinesi, perfino i cinesi, ormai fanno così.

  

Marchionne ha salvato lavoro e impresa, non ha espropriato i lavoratori dei loro diritti, ha ridimensionato semmai il peso del vecchio sindacalismo di classe nel suo modello di rapporti industriali tra operai, impiegati, personale specializzato e piramide gerarchica della fabbrica capitalistica, innovando anche le procedure di mercato che dopo di lui si distendono nell’orizzonte mondiale e non nell’orto asfittico di casa. Questo non è contestabile. Parlare in modo petulante del Marchionne cattivo e nemico del lavoro o elogiarlo ex post come manager bravo, e far finta che l’osso del problema sia lì, è solo un modo per evadere la vera faccenda che l’avventura di Marchionne implica, è solo una perdita abusiva di tempo. Airaudo o Rossi o Bertinotti avranno sempre da dire la loro, secondo il loro schema o visione, e gli ardenti elogi all’ex ad Fiat e creatore di Fca da parte dei capitalisti vecchi e nuovi, e dei loro giornali e giornalisti, potranno rispolverare i toni dell’apologia a buon diritto, ma questo non cambia le cose.

Marchionne non è stato né un eroe del capitale né un diabolico antagonista dei diritti del lavoro. E’ stato un uomo solo al comando, e sottolineo “solo”, uno che nel momento importante, quando si dovevano decidere le sorti della sua azienda, che è tanta parte del patrimonio generale dell’Italia ed è diventata un colosso internazionale (quanto resistente lo si vedrà dopo di lui), ha agito nel più splendido isolamento sociale, culturale, civile e politico. Lo stato italiano non è riuscito a fermarlo, a intralciare vittoriosamente i suoi piani, anche perché il manager è riuscito a districarsi nelle pieghe del potere mondiale, in tempi di crisi, con l’operazione sponsorizzata indirettamente da General Motors, con il famoso put, e sull’indebolimento dello stato nazionale corporativo è prevalsa la logica del piano concertato con Obama, ansioso di salvare un pezzo di Detroit. Solo perciò non hanno avuto risultati gli appelli all’italianità dell’impresa, questo ultimo rifugio delle canaglie (esattamente come il patriottismo secondo il Dottor Johnson), e ha avuto invece corso la ristrutturazione delle fabbriche italiane, niente di perfetto, ovviamente, ma del tutto necessaria. Il valico efficace dei confini è riuscito perché la Fiat con Marchionne ha smesso di farsi allattare alla mammella del pubblico, tra l’altro.

Ora, per dirla tutta, è sempre stato incredibilmente chiaro, a parte le eulogie di questo momento, inevitabili e spesso ipocrite, che i capitani non coraggiosi del capitalismo italiano, i tenutari di vecchie guarentigie, non vedevano di buon occhio un manager che funzionava da outsider e che nella riorganizzazione aziendale e nel rapporto con i sindacati dei lavoratori utilizzava metodi modernizzanti diversi da quelli consueti. E’ per questo che Marchionne fu campione di una società aperta così diversa dalla società consociativa e malmostosa maturata in decenni di concertazione centralizzata e di politiche illusorie, fino alla sua clamorosa uscita da Confindustria, intesa come una gabbia vecchiotta e disutile di cattive abitudini. Ma oggi tutti quelli di quella parte, mentre gli Airaudo e gli altri esercitano come possono il loro mestiere ripetitivo di araldi del conflitto sociale vecchio tipo, fanno a gara nell’apologia dello stesso che, al momento importante della sua parabola, li aveva rimessi al loro posto di arcigni conservatori. Ricordo una campagna del Foglio per denunciare lo scandalo dell’isolamento del riformista capitalista Marchionne, fatta con gli argomenti giusti al momento giusto, e caduta in un clima di comprensibile imbarazzo e di silenzio dell’establishment più timoroso e timorato d’Europa. E questa è la parte di verità che dobbiamo a chi ci legga.

Commenti             

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24 Luglio 2018 - 14:02

Caro Ferrara - La borghesia italiana, nel significato proprio, originario del lemma, cioè come classe sociale autonoma, culturalmente consapevole ed orgogliosa del proprio stato e ruolo, non è mai esistita. Le poche, singole eccezioni rientrano nella regola. E' invece proprio definire osceno il suo succedaneo consociativo e sempre in cerca di soldi pubblici. In sostanza in balia dei mutevoli contesti politici. Poiché un contesto politico ispirato e capace d'aver la forza di sostenerli, ai principi della dottrina liberale non s'è mai vista, il cerchio si chiude. La vita culturale, politica, sociale, economica di un Paese, di una Nazione, di grandi comunità sono elementi indissolubilmente legati alla legge del "tutto si tiene". E si tiene assemblando, mixando, intrecciano, plasmando gli "ingredienti" che sono disponibili. Ogni storia ha avuto i propri. Noi i nostri. Lunga è la strada per Tipperary. Comunque finché lai scriverà, i momenti magici non mancheranno. Maechionne incluso.

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Rispondisimonecv70

24 Luglio 2018 - 14:02

Ferrara poteva andarci giù un pochino più pesante con i sindacati e confindustria... prigionieri entrambi di logiche superate... per usare un eufemismo

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Rispondicmedeo

24 Luglio 2018 - 12:12

Grazie a Dio con questo articolo è tornato il “nostro “ Ferrara. Evviva!

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Rispondiguido.valota

24 Luglio 2018 - 11:11

Si legge Il Foglio, e non c'è altro, per pezzi come questo.

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RispondiSilvius

24 Luglio 2018 - 11:11

Chapeau!

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RispondiDBartalesi

24 Luglio 2018 - 11:11

Lo spirito del capitalismo, nato in Inghilterra più di due secoli fa, non ha mai completamente attecchito nel nostro Paese, rimasto povero, corporativo, velleitario riguardo al sogno di un benessere irraggiungibile su queste non premesse. Sergio Marchionne lo ha capito facendosene una ragione, e nel momento di trasformare la Fiat da "monarchia assoluta" con capitale a Torino in player globale dell'auto, ha dovuto andare oltre oceano. La, in America, Paese di cultura anglosassone, ha fatto ciò che a noi è sembrato un miracolo e allo stesso modo uno sgarbo. Poteva andare altrimenti? Restiamo forse più poveri, anche in senso letterale, sempre corporativi e velleitari. Con un governo populista e anti sistema che rasenta il 60% dei consensi, e un'opposizione che non c'è. E la prospettiva di un destino da Paese sudamericano. Carranba!.

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24 Luglio 2018 - 09:09

Ebbene, si. Chi non ha memoria potrebbe anche essere scaltro (gli araldi) ma la carta, come sempre, canta.

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Rispondialessandrogradenigo

24 Luglio 2018 - 09:09

Bellissimo!

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