In un momento in cui il problema è l'occupazione, propongono il salario minimo garantito Cinquestelle, modello sovietico

Categoria: Italia

Non si interessano dei risultati ma solo dell'annuncio

Domenicocaccopardo 17.3.2019 www.italiaoggi.it

Scriveva noi giorni scorsi Fabio Martini de La Stampa che nel governo nessuno si occupa e si preoccupa delle conseguenze dei provvedimenti che vengono adottati. Si assume uno slogan e lo si trasforma in azione politica, intorno alla quale mettere in moto la macchina del consenso diretta da Rocco Casalino, capo della comunicazione di Palazzo Chigi. Quest'osservazione m'è venuta in mente, leggendo dell'incontro tra il vicepresidente del consiglio, ministro del lavoro, ministro dello sviluppo economico, capo del Movimento 5Stelle, Luigi Di Maio con i sindacati su un tema di grande impatto comunicativo: l'introduzione nel nostro ordinamento di un salario minimo per tutti i lavoratori.

Chi non può essere d'accordo con questa iniziativa che viene presentata alla vigilia del confronto elettorale europeo? Chi avrà il coraggio di dire di no, visto che il sindacato era presente? Ma qualcuno avrà ricordato ai segretari confederali che in 73 anni di Repubblica il sindacato è stato sempre contrario al salario minimo per tutelare il libero esercizio della contrattazione collettiva?

In realtà, qualche osservazione è necessario formularla, a futura memoria e per l'attualità, visto che ci tace acconsente o è complice. Dico subito che il salario minimo già esiste in natura: è quello al di sotto del quale non ci sono lavoratori che accettino di lavorare. Un paradosso certo, ma aiuta a capire. La storia (testé rimossa dalle licenze liceali) ci ha insegnato che nell'andamento ciclico dell'economia, i lavoratori e le loro rappresentanze sono (negozialmente) forti nei periodi di crescita e deboli nei periodi di crisi. Non a caso la lunga crisi che abbiamo attraversato e stiamo attraversando come cittadini del mondo e come italiani ha messo tra parentesi il sindacato, sia quello riformista che quello massimalista (Cgil).

Ora, venuti meno i deboli segnali di ripresa registratisi nel 2016 e nel 2017, emersa una nuova crisi globale, il giovine Di Maio tira fuori dal suo cappello a cilindro il salario minimo. Allo stato attuale, la disoccupazione è a due zeri e i segnali che vengono dopo il «decreto dignità» sono deludenti-preoccupanti. Le fabbriche non tirano. Non tira il terziario. E, nella stasi e nell'attesa che «arrivi Godot», gli investimenti privati languono. E, fatto condannabile, languono anche gli investimenti pubblici. E non solo quelli incappati nelle inestricabili maglie del codice degli appalti, ma anche gli altri, già affidati. In alcuni casi, si è trattato di un improvviso disco rosso che comporta la cancellazione di migliaia di posti di lavoro. Non solo la Torino-Lione, ma la Gronda ligure, la paralisi delle trivelle in Adriatico (10 mila posti di lavoro), il no al gasdotto Israele-Cipro-Italia e altri imprevedibili niet.

Il nostro mercato del lavoro meriterebbe, invece, il completamento delle iniziative di semplificazione, adottando il modello Schröder (il cancelliere tedesco, la cui riforma è la causa determinante del rilancio del suo paese), cui il «jobs act» s'è parzialmente ispirato, ed è gravato da una grave anomalia: la massa degli inoccupati non è specializzata ed è poco disponibile alla mobilità. Le aziende non hanno opportunità occupazionali da offrire ai componenti della massa. Opportunità ci sono, e tante, per lavori specializzati privi o quasi di aspiranti. Questo misfit tra domanda e offerta (anche per colpa di un sistema di uffici del lavoro incapace di favorire l'incontro) è una delle ragioni della rinuncia all'espansione in Italia e, spesso, delle delocalizzazioni.

La soluzione del problema non è certo nel reddito di cittadinanza o nei pannicelli caldi a effetto comunicazionale di cui sono esperti gli esperti governativi. Servirebbe un serio programma di formazione destinato prima di tutto ai giovani e ai giovanissimi che lo Stato italiano da anni parcheggia in scuole incapaci di mettersi in sintonia con i possibili sbocchi esistenti. Ma chi vuole sporcarsi le mani con una iniziativa i cui risultati non verranno prima di 5/10 anni?

Un'ultima constatazione. L'imprenditore, fatalmente, seleziona i suoi occupati in base a due fattori: competenza e impegno. I lavoratori che posseggono queste due qualità sono preziosi e difficilmente l'imprenditore ne potrà fare a meno. Essi sono padroni del proprio destino e possono dettare le condizioni economiche del loro utilizzo. E se accade una crisi aziendale che li privi dell'occupazione, saranno i primi a ritrovarla. Per essi, il salario minimo non serve: sono capaci di amministrarsi da soli. Per gli altri, il salario minimo è una provvidenza sovietica (un sistema nel quale la retribuzione non era connessa al lavoro, ma solo una misura di welfare) che deprimerà il mercato delle occupazioni, spingendo il Paese sulla rotta di una ulteriore depressione.

Il primo problema oggi non è la retribuzione, ma l'occupazione «legale», dotata di assistenza (Inail) e di previdenza. Il resto va lasciato alla libera contrattazione individuale o sindacale.

Il giovine Di Maio (e i suoi esperti), purtroppo, è rimasto all'aratro a chiodo.

di Domenico Cacopardo www.cacopardo.it

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