M5s, il partito fondato sul ricatto

Categoria: Italia

Sarti, De Vito, le multe, il Mef, Torino. Il M5s è il primo movimento politico fondato sul ricatto come strumento ordinario di gestione dei rapporti interni ed esterni. Indagine

di Annalisa Chirico 21 Marzo 2019 www.ilfoglio.it

Danilo Toninelli ha sempre ragione. Quando, a proposito del caso Sarti, il titolare delle Infrastrutture dichiara urbi et orbi: “Il M5s non accetta ricatti da nessuno”, è difficile dargli torto. I grillini non accettano ricatti, al massimo li praticano. Se Toninelli parla, c’è da credergli, lui non spara mai cose a vanvera, anche quando sostiene pubblicamente, lo scorso 23 febbraio, che, eccezion fatta per la Tav, “non c’è una sola opera bloccata in questo paese”. Non una ma seicento, replica l’Associazione nazionale dei costruttori edili. Ma a Toninelli si perdona tutto, pure il ricatto o il ricattino, arma antica come la storia dell’uomo. Il ricatto non è un’esclusiva né un’invenzione pentastellata: i grillini sono però il primo movimento politico fondato sul ricatto come strumento ordinario di gestione dei rapporti interni ed esterni. Ancor prima del bonifico per finta, i 5 Stelle sdoganano la prassi della registrazione audio e video, del microfono nascosto, del dossier anonimo, della spiata a scopo di minaccia, dello screenshot a tua insaputa, dell’email conservata a futura memoria. Per i grillini questi metodi al limite del lecito, lungi dall’essere un’eccezione, rappresentano la regola: non sono un incidente patologico ma la normale conduzione della vita di un partito che, in nome di una concezione totalitaria della democrazia, pretende il controllo assoluto sui propri eletti e, a tale scopo, inserisce nel codice etico una multa da 100mila euro per il parlamentare che osi dissentire. Una sanzione salata che, se non è un palese ricatto, denota tuttavia una forma mentis, una sorta di disciplina estorsiva che punta alla coazione morale dietro l’ombra della minaccia, più o meno esplicita. Se non ti attieni agli ordini impartiti, vieni fatto fuori e devi pagare (poco importa che il valore giuridico di questa clausola sia pari a zero). La multa a carico dei “traditori” viene sperimentata dapprima con i consiglieri comunali torinesi, bersaglio di una multa di 2mila euro per ogni mese di ribellione; in seguito, si replica con gli eletti in Campidoglio per un importo di 150mila euro, sempre meno dei 250mila previsti dal Codice di comportamento per i candidati a Strasburgo. Un esempio illuminante della prassi pentastellata la offre il famigerato Rocco Casalino, il portavoce del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che, stando alla versione di Giulia Sarti, le avrebbe consigliato di denunciare Bogdan Tibusche, poi prosciolto, allo scopo di scagionarsi dalle accuse dei finti rimborsi; Casalino ha negato ogni implicazione (“Sarti si è coperta dietro il mio nome”), poco ha potuto invece rispetto all’audio, diffuso ad arte, in cui l’ex GF preannuncia ad un anonimo interlocutore una “cosa ai coltelli” contro i funzionari di viale XX Settembre: “Domani, se vuoi uscire con una cosa simpatica, la metti che nel m5s è pronta una mega vendetta: c’è chi giura che, se non dovessero uscir fuori i soldi per il reddito di cittadinanza, tutto il 2019 sarà dedicato a far fuori una marea di gente del Mef. Non ce ne fregherà veramente niente”.

Il “tribunale del popolo” aveva già marchiato De Vito con le stigmate del presunto colpevole, quando a Roma si diffuse uno strano dossier

Governare con i 5 Stelle? Una fatica di Sisifo. Anche stare in Parlamento con loro non è una passeggiata. Secondo Giovanni Favia, uno dei primi attivisti espulsi da Beppe Grillo, il caso Sarti avrebbe poco a che fare con il revenge porn: “Credo che sia una vendetta politica interna al M5S. Lì dentro c’è una cyberguerra. Alla Casaleggio avevano una fobia nei miei confronti e tutti quelli che erano stati vicini a me erano visiti con sospetto e subivano uno spionaggio stile Stasi”. Sarti, un tempo vicina a Favia, avrebbe installato le telecamere in casa per tutelarsi da un “covo di serpi”, altro che porno. Chissà se le parole del vicepremier Matteo Salvini, “Io non accetto ricatti”, nei giorni in cui aleggia l’ipotesi di uno scambio su Tav e caso Diciotti, contengano un riferimento all’abitudine degli alleati di governo. Un leghista di rango racconta che, sin dall’esperienza nei consigli regionali, gli esponenti del Carroccio hanno imparato a difendersi dai metodi pentastellati: “Con loro devi parlare e scrivere sapendo che, nove volte su dieci, ti registrano. Ogni virgola ti si può ritorcere contro”. Quando affiora sulla stampa la notizia di una fantomatica “operazione scoiattolo”, lanciata dal Cavaliere in persona per reclutare nuove leve tra i grillini infedeli, Luigi Di Maio intima ai suoi: “Fingetevi interessati e registrate”. Rievocando i suoi trascorsi a Palazzo Vecchio, l’ex premier Matteo Renzi ricorda un episodio succulento: Alfonso Bonafede, da consigliere non eletto, si presentava nell’aula consiliare armato di telecamera, e una volta inseguì il sindaco fin sulla porta del bagno... Il fatto è che, nel magico mondo pentastellato, spifferi, veleni e leggende si affastellano. Una canea di chiacchiere, pettegolezzi, sospetti che, sin dagli albori, percorre l’intera parabola del M5S. Di recente, l’odore mefitico del ricatto invade il sacro blog quando, all’indomani della consultazione online che incorona la linea, impressa da Di Maio, contraria all’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini, Grillo, sempre più lontano dal nuovo corso governativo, fa trapelare un grappolo di scarne parole: “Io conosco tutto di lui”.

Dall’ideologia della trasparenza alla prassi del bieco ricatto, il passo è breve. Nel pianeta pentastellato l’“intercettateci tutti” è diventato il grimaldello per intercettare le vite degli altri. Amorazzi, amplessi, ogni dettaglio: persino i messaggini Telegram, quelli che si autoelidono, vengono fotografati, all’occorrenza. Il caso dell’ex presidente della commissione Giustizia della Camera, finita al centro di uno scandalo di foto osé e hackeraggi sospetti, è soltanto l’ultimo in ordine di tempo. Esistono ricatti e ricatti: in questa sede limiteremo l’analisi a quelli pubblici, approdati nelle aule di tribunale e sui giornali. Si parte dalla provincia partenopea.

“Rosa, tu hai un problema”, il consigliere pentastellato di Quarto, Giovanni De Robbio, si rivolge così al sindaco pentastellato Rosa Capuozzo. “Mi mostrò la foto aerea di casa mia sul suo cellulare – racconta in procura il primo cittadino - e mi disse che dovevo stare tranquilla perché dovevo essere meno aggressiva, non dovevo scalciare, dovevo essere più tranquilla con il territorio”. Il “problema” al quale De Robbio allude riguarda presunte irregolarità urbanistiche nell’abitazione di proprietà del marito del sindaco. Una vicenda torbida nella quale si affaccia l’ombra della camorra. De Robbio finisce sotto indagine per tentata estorsione (nei confronti di Capuozzo) e per voto di scambio aggravato in concorso con Alfonso Cesarano, titolare di una ditta di pompe funebri e, secondo gli inquirenti, esponente di una famiglia vicina al clan camorristico Polverino. Secondo la ricostruzione dell’inchiesta, curata dal pm Henry J. Woodcock e basata su intercettazioni telefoniche, diverse testimonianze e due deposizioni in procura dell’ex sindaco, De Robbio voleva imporre al primo cittadino l’affidamento del campo sportivo del paese allo stesso Cesarano. Quando il caso esplode con un dossier anonimo trasmesso alla stampa, il M5S avvia immediatamente l’espulsione di De Robbio e, dopo qualche tira e molla, anche quella del sindaco Capuozzo, rea di non aver denunciato il ricatto alle autorità competenti. Il sindaco si è limitato a informare Di Maio e Roberto Fico concordando con loro una strategia di contenimento: minimizzare il ricatto, menzionare esclusivamente le pressioni politiche. “Gli ho detto anche a Luigi – afferma Capuozzo in una conversazione telefonica del 24 novembre 2015 – che qualche sera ci dobbiamo vedere perché qualsiasi cosa veramente loro ci devono commissariare”. In una successiva intercettazione, il primo cittadino ribadisce: “Bisogna gestire mediaticamente…più in silenzio possibile, senza mettere i manifesti”. A dieci giorni dall’espulsione, il sindaco, privo della maggioranza per governare, si dimette: “Mi sono sentita abbandonata dal movimento, ma si sono sentiti abbandonati tutti i cittadini. E’ una sconfitta per la politica e una vittoria per la camorra”, dichiara nella sala consiliare la donna che non ha denunciato. Viene da domandarsi allora come si concluderà la parabola di Giulia Sarti, la parlamentare che invece è corsa a denunciare un uomo ritenuto innocente dalla magistratura (su richiesta della procura, il gip di Rimini ha archiviato il fascicolo su Bogdan). Per lei, ad oggi, nessun provvedimento sanzionatorio.

Dall’ideologia della trasparenza alla prassi del bieco ricatto, il passo è breve. Cosa intende Grillo quando dice di Di Maio: “So tutto di lui”

Di provincia in provincia: Agrigento. Qui il terremoto ruota attorno al nome di Fabrizio La Gaipa, il candidato all’Assemblea regionale siciliana finito agli arresti domiciliari con l’accusa di estorsione. La Gaipa, immortalato in una celebre foto con Di Battista, il luogotenente siculo Giancarlo Cancelleri e lo stesso Di Maio, risulta primo dei non eletti alle scorse elezioni regionali. La Gaipa è titolare dell’albergo Costazzurra dove la vita procede tranquilla fin quando due suoi dipendenti lo accusano di essere stati costretti a restituire, con la minaccia del licenziamento, oltre un terzo dello stipendio formalmente erogato. Ad incastrare l’imprenditore alberghiero è un sodale di partito, Ivan Italia, ex dipendente con la stessa passione politica (candidato pentastellato al Consiglio comunale agrigentino nel 2015). Italia consegna in questura due registrazioni effettuate con il cellulare, risalenti al 13 e al 19 gennaio 2017. Stando alle indagini coordinate dal procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, i file “acclarano, in modo incontrovertibile, la restituzione, da parte del lavoratore regolarmente assunto, oltre che della tredicesima, anche di una parte abbastanza consistente della retribuzione mensile, visto che a fronte di una busta paga di 1.634 euro, l’impiegato, suo malgrado, si vede costretto a restituire al proprio datore di lavoro la somma di 780 euro”. In altre parole, i dipendenti si vedono costretti a restituirgli tfr, indennità, tredicesima, “pure gli ottanta euro di Renzi”. In seguito all’arresto, il M5S corre ai ripari sottolineando che “la segnalazione ricevuta sul suo conto prima delle elezioni non ha trovato riscontro nel certificato 335 né negli altri documenti che ha prodotto e fornito su nostra richiesta”. A suscitare l’imbarazzo dei vertici non c’è soltanto l’ingorgo ricattatorio ai danni dei lavoratori, svelato per giunta dalle registrazioni, effettuate con il telefonino, da un dipendente che è, anch’egli, un attivista grillino; a ciò si aggiunge il fatto che, già prima dell’esplosione mediatica del caso, i dirigenti pentastellati, a livello regionale e nazionale, risultano essere stati informati secondo la più abusata prassi a 5 Stelle: il dossier. Alcuni attivisti locali hanno inviato un’email al blog di Grillo allegando le prove sulle “gravissime violazioni penali commesse da La Gaipa”; inoltre la registrazione compromettente realizzata da Italia circola da tempo nelle chat e nei canali di comunicazione grillini. Il deputato dem Michele Anzaldi azzanna: “I vertici del M5S sapevano da mesi dei metodi di sfruttamento del lavoro utilizzati dall'imprenditore di Agrigento, eppure lo hanno candidato lo stesso e, se fosse stato eletto, oggi siederebbe in Assemblea regionale”.

Il caso dell’ex presidente della commissione Giustizia della Camera è soltanto l’ultimo in ordine di tempo. Ricordate Quarto?

Per molti versi, Roma è il capolavoro grillino per antonomasia. Dal grido “onestà-tà-tà” contro il Cupolone di Mafia capitale il movimento si converte al garantismo peloso per tutelare la poltrona del primo cittadino e la sopravvivenza di una giunta i cui componenti cambiano a una velocità pari a quella con cui Di Maio licenzia le fidanzate. Dei ricatti in Campidoglio si conosce soltanto la punta dell’iceberg: nessuna pretesa di esaustività, dunque. Tuttavia, un paio di episodi meritano di essere raccontati. Il Raggio magico capitolino si compone di tre persone, a parte il sindaco: Raffaele Marra, Salvatore Romeo e Daniele Frongia. I quattro, quando devono parlare, salgono sui tetti per godersi il panorama. Su Repubblica Carlo Bonini lo definisce il “tavolo di bari tenuto insieme dal ricatto”: Marra e Romeo fanno la parte dei padroni, tracotanti e triviali. Il primo è in ogni luogo, sa che può trafficare come gli pare, il sindaco lascia fare. Nel gennaio 2016 Romeo accende una polizza sulla vita di 30 mila euro, la beneficiaria è Raggi Virginia, la donna che, sei mesi dopo, divenuta nel frattempo sindaco, gli triplica lo stipendio di dipendente comunale nominandolo a capo della sua segreteria. Dalle indagini condotte dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, si scopre che Romeo di polizze ne ha accese tre, per un valore di 90 mila euro, sempre prima che, in occasione delle comunarie pentastellate, Raggi sbaragli a colpi di dossier l’avversario più temibile, Marcello De Vito. Al di là degli esiti giudiziari ad oggi inconsistenti (caduta l’imputazione per abuso d’ufficio, il sindaco è stato assolto nel processo per falso), intorno alle stravaganti premure di Romeo si dipana il nastro del presunto ricatto o, quantomeno, dell’accordo inconfessabile. E se quelle tre polizze fossero la “fiche” puntata sulla giovane avvocata grillina contro la cordata De Vito-Lombardi? Del resto, è una generosità piuttosto singolare per un signore che all’epoca guadagna 39mila euro l’anno. Veniamo al caso De Vito, arrestato ieri per corruzione nell’ambito della inchiesta sullo stadio della Roma. Sul finire del 2015, in piena campagna per le comunarie, spunta un dossier contro il vero sfidante della candidata di Borgata Ottavia. Raggi è chiamata a risponderne nell’ambito dell’indagine scaturita da un esposto presentato, nel luglio 2016, dal senatore di Idea Andrea Augello che, sulla scorta di alcuni articoli di stampa, ricostruisce il “processo” interno intentato dagli ex consiglieri grillini Frongia, Raggi e Stefàno contro il collega De Vito, promotore di un accesso agli atti per una pratica edilizia che, secondo gli accusatori, poteva configurare il reato di abuso d’ufficio. Tra dicembre 2015 e gennaio 2016, un mero sospetto diventa il casus belli per celebrare, nei confronti di Frongia, una specie di processo al quale assistono parlamentari del calibro di Di Battista, Carla Ruocco, Paola Taverna. De Vito si giustifica sostenendo che la richiesta di accesso agli atti sia stata sollecitata dagli avvocati grillini della regione Lazio con l’obiettivo di verificare una segnalazione su presunti illeciti a loro segnalati.

Come prevedibile, il “tribunale del popolo” marchia De Vito con le stigmate del presunto colpevole, le sue aspirazioni di correre da candidato sindaco vengono definitivamente seppellite, la strada per Virgi è spianata. Sull’identità dell’autore del dossier anonimo in pochi nutrono dubbi: il principale sospettato è Marra, l’uomo che, all’indomani della presa grillina del Campidoglio, diventa il vicecapo di gabinetto dotato del dono dell’ubiquità.

Nella città sabauda, a febbraio, si scopre che anche l’ex portavoce del sindaco è indagato per estorsione ai danni del primo cittadino

In questo mosaico impazzito, e assai poco edificante, non può mancare lui, il capo politico. Accantonata la ridda di pettegolezzi e veleni su ministri e vice promossi a tali incarichi non per le loro competenze ma in quanto depositari di segreti inconfessabili sul suo conto, c’è un episodio che la dice lunga su come funziona all’interno dei 5 Stelle. Paola Muraro è l'assessora capitolina alla Sostenibilità ambientale che, al termine di un lungo braccio di ferro, si dimette nel dicembre 2016 perché raggiunta da un avviso di garanzia per reati ambientali. Iscritta nel registro degli indagati da aprile, la donna dichiara di essere venuta a conoscenza della sua posizione giudiziaria, comunicandola al sindaco, a luglio. Entrambe divulgano la notizia agli inizi di settembre in commissione Ecomafie. All’epoca nel M5S vige l’intransigenza giacobina, con obbligo immediato di dimissioni per chiunque sia oggetto di attenzioni giudiziarie. Sulle prime, Di Maio si dice all'oscuro ma un’email, pubblicata da Il Messaggero, lo inchioda nel ruolo del bugiardo. Il 5 agosto Paola Taverna, la grillina con la fama della “dura e pura”, avvisa il vicepresidente della Camera dell'indagine in corso nei confronti di Muraro. E’ il punto due di una missiva che si apre con la richiesta d rimuovere, “senza indugio”, Marra. Taverna gli chiede inoltre di condividere l'informazione con gli altri componenti del direttorio nazionale, ma Carla Ruocco, Carlo Sibilia e Fico dichiareranno di essere stati tenuti all'oscuro. Di Maio è in un cul de sac, insomma è sputtanato. Traboccano le rivalità interne con gli ortodossi che puntano il dito contro l'allora vicepresidente della Camera. “Ho letto l’email ma ho capito male”, si difende lui. Post scriptum: Taverna è la vicepresidente del Senato con una mamma che, secondo una sentenza del Tar, occupa abusivamente una casa popolare assegnatale 24 anni or sono. “Mia madre ha il diritto di morire dove ha vissuto”, ha replicato lei.

Da Roma si passa a Torino. Nella città sabauda, agli inizi di febbraio, si scopre che Luca Pasquaretta, ex portavoce del sindaco Chiara Appendino, è indagato per estorsione ai danni del primo cittadino, traffico illecito di influenze e turbativa d’asta. L'inchiesta scaturisce non già da una denuncia ma da una intercettazione telefonica sull’utenza riconducibile a Pasquaretta. Dopo essere stato allontanato dagli uffici di Palazzo Civico per lo scandalo di una consulenza da 5mila euro relativa ad una prestazione inesistente per la fondazione del Salone del Libro, l'uomo viene “premiato” con un posto da assistente del viceministro dell’Economia, la grillina Laura Castelli. “Non ho mai ricattato Chiara Appendino. E' tutto un equivoco che chiarirò nelle sedi opportune. Vorrei ricordare che siamo tutti innocenti fino a prova contraria”, si difende lui. I rapporti tra gli esponenti torinesi del M5S disegnano un quadro a tinte fosche. Secondo l’ipotesi accusatoria, rappresentata dal pm Gianfranco Colace, il “pitbull” di Appendino si è trasformato da portavoce a ricattatore. Dopo la sua uscita, infatti, egli avrebbe ricattato il sindaco, ora parte lesa dell’inchiesta, minacciando rivelazioni compromettenti, relative all’attività politica e amministrativa della giunta pentastellata, se non lo avesse aiutato a trovare un nuovo incarico. Tra le notizie più fresche, la procura di Torino avrebbe deciso di sentire come persona informata dei fatti l’attrice porno Heidy Cassini la quale aveva così commentato il post pubblicato dal sindaco su Facebook: “Cara Chiara, dovevi informarti bene di chi ti stavi mettendo a fianco…Noi lo sapevamo…ma giustamente ognuno deve fare la propria esperienza…ora ci sei passata anche tu…auguri sinceri”. Un riferimento al passato di Pasquaretta come ufficio stampa di Torino Erotica. “Scriveva solo comunicati”, liquida il caso il viceministro Castelli che, dopo la notizia delle indagini, interrompe la collaborazione con l’uomo che a Torino era per tutti il vero deus ex machina di quanto si muoveva intorno al sindaco Appendino, la donna delle istituzioni che ha deciso di liberarsi, in ritardo, del suo braccio destro divenuto improvvisamente troppo ingombrante. Senza mai denunciare perché i panni sporchi si lavano in casa. E’ proprio vero: il metodo del ricatto ti addestra all’omertà. Che non fa rima con l’onestà.