La crisi della sinistra che sa dire solo onestà

Categoria: Italia

Osannava la questione morale di Berlinguer, e gli italiani sono diventati populisti. Tifava Mani pulite, e si è ritrovata Salvini. Adorava i pm, e ha scoperto i guai del Csm. Lo storico sbaglio di sostituire la giustizia sociale con la giustizia penale

di Maurizio Crippa 12 Giugno 2019    www.ilfoglio.it      

"Il paradiso si allontanava sempre più nei nimbi del futuro. Nel presente aumentavano la fame, il freddo, le epidemie e l’odio reciproco. Perché l’operaio indigente odia in egual misura il ‘ricco borghese’ e il suo stesso compagno, il quale ha saputo o avuto la fortuna di procurarsi un pezzo di pane". Così il grande intellettuale russo Lev Šestov inchiodava, già nel 1920, il fallimento della rivoluzione bolscevica che avrebbe dovuto portare alla giustizia sociale. Ma forse già intuiva anche il fallimento della “seconda rivoluzione” della sinistra: quella che al mito della giustizia proletaria ha sostituito il mito della giustizia dei tribunali. È il nuovo crollo del Muro che abbiamo sotto gli occhi. Con la scoperta che l’ex giudice e ora ministro di Giustizia di Bolsonaro, Sergio Moro, osannato per anni dalla sinistra manettara italiana per l’inchiesta Lava Jato, in realtà ha complottato in via (il)legale per far fuori l’avversario politico Lula. O con la scoperta che l’unica casta a cui la sinistra italiana si è genuflessa per decenni, quella dei magistrati, vista dal palazzo del Csm è una congrega di poteri limpidi come una pozzanghera. Oppure la scoperta che tutti i codici anticorruzione riescono nell’unica impresa di fermare l’economia (cioè rendere tutti più poveri, e incazzati). La sinistra perde ovunque nel mondo per tanti motivi. Ma uno, che a sinistra faticano ad ammettere perché è come rinunciare alla bandiera, è questo: aver sostituito il mito dell’equità con quello dell’onestà. Aver fatto del “ladro” non un individuo da arrestare, ma un nemico di classe. Ma in questi giochi sono più bravi a destra. Fine della rivoluzione.

Si ricordavano ieri i 35 anni della morte di Enrico Berlinguer. È stato, con la “diversità morale”, uno degli artefici di questo cambio di oggetto sociale della sinistra. Più che un leader politico, una sorta di patriarca fondatore. Sarebbe ingiusto addossare a lui tutta la responsabilità di una metastasi molto più vasta, e che nasceva parimenti dal moralismo religioso insito nel comunismo e dal suo stesso fallimento come teoria economica. Ma quella riassumibile nella figura di Berlinguer è una sinistra passata dalla propria ideologia dotata, di un proprio oggetto sociale, alla soggezione antropologica per il moralismo di matrice azionista (del resto piuttosto borghese e di destra). Compresa, ahinoi, quella screditata congrega di tardi epigoni che è stata Libertà e Giustizia. Così il nemico di classe non fu più il capitalismo, ma il reato. Soltanto che il reato non è un sistema politico, è una condizione oggettiva di violazione di norme, perseguibile perché reca danno ai singoli o alla collettività. Inoltre: innanzitutto è interclassista; in secondo luogo il suo sradicamento non porta alla felicità sociale né alla ricchezza (al massimo, alla sostituzione di una classe corrotta con un’altra). E in terzo luogo, additare nei ladri “i nemici del popolo” non è rivoluzionario, è sempre stato invece un mezzaccio per nascondere il fallimento dei rivoluzionari: fin da quando i giacobini imposero la legge sugli accaparratori.

Non è un fenomeno solo italiano, ma per restare in Italia dopo Berlinguer le cose sono andate anche peggio. Mani pulite è stata un abbaglio della sinistra che ha portato al radicamento sotto la pelle degli italiani di un’unica pulsione vendicativa, di cui alla lunga si sono avvantaggiati i populisti. Nella presentazione di quello che Piercamillo Davigo definisce “un vademecum” che “spazza via le sciocchezze e le menzogne che per anni sono state divulgate”, ovvero il polpettone di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio “Mani Pulite, la vera storia”, i tre moschettieri del Fatto (auto)definiscono il loro libro “un documento storico che rimarrà per sempre sul tradimento della politica”. Non si concederà loro la gloria di aver contribuito ad abolire la corruzione (“corri, corri, untorello”, scriveva qualcuno), ma quel “tradimento della politica” è un clamoroso segnale di ciò che è accaduto. Dopo la sostituzione della politica con la giustizia (non sempre imparziale) dei tribunali, l’astensionismo è salito dal 12 al 27 per cento, tanto per limitarsi a un dato numerico quasi banale. Il “tradimento della politica” non è la corruzione, quello è un male curabile: è trasformare la politica in una mera questione di onestà, misurata per giunta da magistrati che si chiamano Sergio Moro (tanto per avvalerci dell’extraterritorialità). Ma per tornare in Italia: se è vero che il Csm non c’entra direttamente con la sacralizzazione del reato come nemico di classe, è però evidente che c’entri molto con la trasformazione, da parte di una sinistra impazzita, dei magistrati in sacerdoti e leader politici, questo sì.

Anche perché, in fondo al tunnel c’è questo. Sergio Moro è lo stesso che tre anni fa aveva firmato l’introduzione alla traduzione in portoghese del libro dei tre fattisti, “La verità sull’inchiesta italiana che ha ispirato Lava Jato”. Era ed è un uomo di destra, non proprio moderata. Com’era un uomo di destra – non fascista, ma populista – Tonino di Pietro, che però la sinistra divinizzò e il Pds omaggiò di laticlavio. Ed è sempre stato culturalmente di destra il maestro di tutti, Piercamillo Davigo. Sono trent’anni che il popolo, ispirato da una sinistra che non sa di che altro parlare, si sente in dovere di applaudire le manette, gadget tipicamente di destra. Ma l’onestà non è il Sol dell’avvenire, è un mito regressivo che appartiene alla destra e al populismo. E a usarla, sono più bravi i Bolsonaro, i Salvini e persino i Dibba. La seconda rivoluzione della sinistra è fallita. Forse è ora di rendersene conto.