I rischi dell’autonomia differenziata per le Regioni del Sud

Categoria: Italia

Da una "secessione dei ricchi" a un Sistema sanitario a più velocità. La riforma sponsorizzata dalla Lega «può profondamente modificare le modalità di funzionamento del Paese», dice l'economista Viesti. Il punto.

Carlo Terzano 12.8. 2019 www.lettera43.it

L’accelerazione imposta dalla Lega sul tema delle autonomie di Veneto, Lombardia ed Emilia sembra riaprire e acuire la mai sopita questione “meridionale”. Matteo Salvini potrebbe riuscire a portare a termine ciò che Umberto Bossi ha sempre e solo minacciato: una sorta di secessione del Nord ai danni del Sud. E potrebbe riuscirci avendo indorato l’amara pillola secessionista con temi sovranisti. Tanto che, secondo un sondaggio realizzato da Demos per Repubblica, se si escludono alcune sparute forme di protesta (come i bar “devenetizzati” in Calabria nei quali non viene venduto il Prosecco), la maggioranza degli elettori meridionali è d’accordo a concedere al Settentrione di ballare da solo. Ma per il Sud cosa cambia?

LA RIFORMA DEL 2001 E I PRECEDENTI BOCCIATI

Difficile dirlo. Perché se si completasse l’iter si navigherebbe a vista. Iniziamo comunque col ricordare che siamo nel solco del dettato della Costituzione (terzo comma dell’articolo 116). Niente secessioni con “fucili e forconi” in mano, insomma, per rievocare una immagine tanto cara al Senatùr. Ma, da quando la Costituzione è stata modificata in senso federalista, nel 2001, su impulso proprio della Lega Nord, nessuna Regione è mai riuscita a ottenere maggiore autonomia. Veneto e Lombardia ci provarono nel 2006 e nel 2007, il Piemonte l’anno successivo. Ogni loro istanza è però morta a Roma, soffocata da un Parlamento accentratore che, per paradosso, dopo aver concesso alle Regioni facoltà di chiedere maggiore autonomia, non ha mai dato il proprio nulla osta all’emancipazione.

LE RICHIESTE DELLE REGIONI DEL NORD

Si arriva ai giorni nostri. Il regionalismo in studio prevede una «compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell’imposta sui redditi e di eventuali altri tributi erariali», per usare le parole che troviamo nel testo siglato dal presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, e dal ministro all’Economia, Giuseppe Tria, con l’ok della ministra vicentina agli Affari regionali Erika Stefani (Lega). Voci di spesa, come per esempio l’istruzione o la protezione civile, un tempo sostenute a livello centrale, saranno finanziate cedendo quote dell’Irpef o dell’Iva generate sul territorio. E se nei primi anni si continuerà a finanziare i servizi su “base storica”, senza distaccarsi da quanto avvenuto finora, a mano a mano che l’autonomia nelle 23 materie che le Regioni hanno avocato a sé prenderà forma, cambierà la modalità di finanziamento, sulla base di parametri oggettivi di fabbisogno che saranno definiti in concertazione tra le Regioni e il governo.

Il Nord spende molto di più, ma lo fa in modo intelligente. Mentre al Sud si spende poco, ma nel modo peggiore

Chi oggi sostiene l’autonomia ricorda che mentre ogni singolo studente lombardo costa allo Stato 463 euro e ogni studente veneto 483, per l’istruzione dei ragazzi campani vengono pagati 671 euro ad alunno, che diventano 702 in Basilicata, 710 in Calabria e ben 788 in Sardegna. Eppure, dove si spende meno, dicono i test nazionali, la qualità dell’istruzione è migliore. Da qui l’idea di trattenere sul territorio i soldi delle tasse racimolati all’interno della Regione, così da migliorare i servizi evitando di finanziare sprechi altrove. In realtà, le varie relazioni annuali sulle politiche nazionali e politiche di sviluppo a livello territoriale fotografano come il Nord spenda molto di più, ma lo faccia in modo intelligente. Mentre al Sud si spende poco, ma nel modo peggiore.

VERSO LO “SPACCA ITALIA”?

La speranza, per le tre Regioni che oggi chiedono più autonomia, e che generano, assieme, il 40% del Pil nazionale, è mettere le mani su almeno 1 miliardo in più che si recupererà chiudendo i rubinetti alle politiche distributive e assistenzialistiche. Ma se è vero che la Costituzione all’articolo 116 riconosce la facoltà di chiedere maggiore autonomia, all’articolo 117 secondo comma lettera “m” stabilisce che è compito dello Stato a livello centrale determinare «i livelli essenziali delle prestazioni (i Lep) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Un livello minimo deve essere garantito insomma ovunque, per evitare che ci siano cittadini si serie A e di serie B. Ma è così?

IL MONITO DELLA CORTE DEI CONTI

Proprio sulla tenuta dei Lep sono intervenuti recentemente i giudici della Corte dei Conti, ascoltati alla metà di luglio in Commissione bicamerale sull’attuazione del federalismo fiscale. «Considerata la rilevanza delle risorse erariali a fini perequativi per il finanziamento dei Lep che lo Stato trasferisce dalle Regioni economicamente “più performanti” verso quelle più deboli» hanno spiegato i magistrati contabili, «una diversa ripartizione tra Stato e Regioni delle risorse fiscali prodotte nei rispettivi territori potrebbe incidere sulla sostenibilità dei servizi pubblici in determinate aree del Paese, se rimodulasse anche i trasferimenti delle risorse perequative».

Le Regioni che esportano il maggior numero di persone in cerca di assistenza medica sono Puglia, Sicilia, Lazio, Calabria e Campania.

Anche la Federazione nazionale medici odontoiatri e chirurghi, Fnomceo, ha lanciato l’allarme: «Non vogliamo per l’Italia una salute a diverse velocità. Non vogliamo per il nostro Servizio sanitario nazionale una medicina amministrata, governata dai Pil delle varie Regioni». Già oggi il nostro Paese ben conosce il triste fenomeno dei pazienti del Sud “con la valigia”. Secondo gli ultimi dati di Fondazione Gimbe, con loro si muove anche un fiume di denaro: almeno 4,6 miliardi nel 2017. L’88% del flusso si concentra proprio in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, che vantano crediti superiori ai 200 milioni. Di contro, il 77% del saldo passivo grava sulle Regioni che esportano il maggior numero di persone in cerca di assistenza medica: Puglia, Sicilia, Lazio, Calabria e Campania. Una fuga che genera debiti da oltre 300 milioni di euro. E la situazione domani potrebbe acuirsi.

IL RISCHIO DI UNA “SECESSIONE DEI RICCHI”

Contrario al regionalismo così come è stato disegnato dai governatori delle Regioni del Nord anche l’economista Gianfranco Viesti che, proprio sull’argomento, ha scritto un volume dal titolo assai evocativo: Verso la secessione dei ricchi?, pubblicato da Laterza e scaricabile gratuitamente. «L’autonomia differenziata regionale così intesa», scrive Viesti, «può profondamente modificare le modalità di funzionamento del Paese, parcellizzare alcuni fondamentali servizi pubblici, determinare diversi diritti di cittadinanza in base alla residenza». Diversi i punti critici rilevati dall’economista, tra cui «le modalità di finanziamento delle materie trasferite alle Regioni. Se appare condivisibile l’idea che si debba superare il criterio della spesa storica, il processo di determinazione dei fabbisogni standard su cui calcolare la spesa da trasferire andrebbe certamente preceduto dalla determinazione dei Lep previsti dalla Costituzione; dovrebbe essere attuato con parametri ed indicatori validi per l’intero territorio nazionale e non solo per le Regioni coinvolte». Insomma, i rischi sono numerosi.

UNA MATERIA IMPORTANTE STRITOLATA DALLA POLITICA

Anche per questo, appare lungimirante l’invito che Viesti rivolge dalle pagine del suo libro: «In un Paese assai differenziato per storia e realtà locali e regionali come l’Italia, ma anche così dispari nei livelli di reddito fra le sue comunità, le scelte relative al decentramento, i loro possibili costi e benefici, non possono che essere attentamente ponderate». Siamo all’alba di una riforma che rivoluzionerà, nel bene e nel male, l’assetto della nazione. Farne un vessillo politico, un bottino da portare a casa per dimostrare la propria forza sull’alleato di governo è pericoloso. Allo stesso modo, ciascuno dovrebbe informarsi per comprendere cosa c’è davvero in ballo. Al referendum per l’autonomia veneta l’affluenza è stata del 57,2%, pari a 2.328.949 elettori; a quello lombardo hanno votato appena 3.017.707 di cittadini (pari al 38,34%). Una percentuale assai modesta a livello locale, irrisoria se comparata all’intera popolazione italiana.