Cialtronismo e protezionismo: occhio ai dazi.

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Questa crisi segnalata da Antonio Pedone e Giorgio Fuà nel 1980. Perchè

Le lettere al direttore del 5.10. 2019 ilfoglio.it

Al direttore - Bisogna essere contrari al protezionismo negli scambi commerciali sempre e non solo quando questo può risultare più conveniente per un paese. La libera circolazione delle merci su mercati aperti e liberi, gestiti con regole condivise, stimolano lo spirito d’impresa e la libertà dell’impresa, la creatività, la continua spinta verso l’efficienza produttiva che anima l’attività dei nostri associati. L’alternativa ai mercati aperti, agli accordi e alla libertà sono i dazi e le misure di ritorsione. Alla luce di queste considerazioni di fondo, sarebbe stato utile sentire più voci sostenere posizioni favorevoli alle intese con il Canada e con il Giappone. La crescita delle nostre esportazioni, certificata dalle statistiche della Commissione Ue, ci ha dato finora ragione. L’aumento, in particolare, ha riguardato proprio i formaggi che oggi rischiano di finire sotto la scure del dazi statunitensi. Infine, è da sottolineare che solo gli accordi bilaterali, con il riconoscimento e la tutela delle denominazioni di qualità e di origine, consentono di contrastare sul piano legale il fenomeno “Italian sounding” e di vincere le sfide del commercio sempre più globale con la nostra capacità di narrare l’Italian Style.

Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura

Dopo la visita di Conte a Trump, nel 2018, “fonti di Palazzo Chigi” fecero sapere ai cronisti quanto segue: “Conte ha ottenuto da Trump garanzie che gli interessi delle aziende italiane non vengano toccati, con particolare riferimento ai prodotti dell’agroalimentare”. Ieri Coldiretti (ben svegliati!) ci ha fatto sapere che è lì lì per essere colpito dai dazi americani il 25 per cento delle esportazioni agroalimentari del made in Italy per un valore di circa mezzo miliardo di euro. Niente male.

Al direttore - L’aumento dell’Iva è scongiurato, e siamo tutti contenti. La flat tax è scomparsa dall’agenda del governo Bisconte, e possiamo tutti tirare un sospiro di sollievo. L’articolo 53 della Costituzione è salvo, e siamo tutti felici. Poco importa che negli ultimi decenni l’idea-forza della progressività sia entrata in crisi. A questa crisi, segnalata già a metà degli anni Ottanta da Antonio Pedone e Giorgio Fuà, hanno contribuito prima l’inflazione, con il suo cieco automatismo di drenaggio fiscale, poi la giungla sempre più fitta delle agevolazioni, detrazioni e deduzioni, infine la crescente complessità della società di massa. E’ in questo contesto che esplode il fenomeno leghista alle elezioni amministrative del 1990, quando Umberto Bossi riuscì a interpretare la protesta dei ceti medi del nord contro il sistema fiscale, in cui era sempre più evidente lo scarto tra risorse prelevate e benefici erogati. Più tardi si aprì una riflessione su quella vicenda e, in alcuni ambienti accademici, furono formulate proposte di riforma che non riuscirono però mai a varcare la soglia della provocazione intellettuale. Penso, in particolare, a quelle proposte che si ispiravano alle teorie di economisti come Nicholas Kaldor e James E. Meade: la trasformazione dell’imposta personale sul reddito in una imposta personale sulla spesa. Ora, se la sinistra è stata identificata con il “partito delle tasse”, una ragione c’è. La sinistra vuole più stato sociale. Più stato sociale significa più tasse, e dunque teme che abbassarle significhi tagliare tout court le prestazioni sociali. Per la storia della sinistra domestica quello del fattore T(asse) è oggi un capitolo chiuso? Difficile dirlo. In ogni caso, possiamo anche tuonare contro gli speculatori, contro i banchieri rapaci, contro i superbonus dei manager, contro un capitalismo predatorio e le sue diseguaglianze. Ma non possiamo sottacere un dato incontrovertibile, occultato nelle pieghe di un debito pubblico abnorme. Vale a dire che i diritti sociali dipendono, in misura che non ha confronto con i diritti civili e politici, dalle risorse create dal mercato. Sfidati dai cambiamenti demografici, della famiglia e del lavoro, il welfare state è sulla graticola da quando non è stato più possibile pagarlo aumentando le tasse. E’ stato finanziato indebitandosi. E il debito occorre restituirlo. Se le cose stanno così, non basta l’appello alla lealtà e al senso civico degli italiani. Non bastano la retorica della lotta senza quartiere all’evasione e dei patti fiscali tra stato e cittadini, o pur commendevoli procedure telematiche e la tracciabilità della moneta. Occorre che la spesa pubblica corrisponda davvero a un ragionevole costo dello stato sociale. Per esempio, promuovendo modelli di welfare aziendale e di welfare locale non gestiti da mastodontici e inefficienti apparati burocratici. La regola nota col nome di “rasoio di Occam” suggerisce di scegliere, ai fini della risoluzione di un problema, quella più semplice tra più ipotesi possibili. Come ben sapeva Luigi Einaudi, è un principio che, se adottato sul terreno fiscale, potrebbe risparmiare molte pene agli italiani: “Semplificare il groviglio delle imposte sul reddito è la condizione essenziale affinché gli accertamenti cessino di essere un inganno, anzi una farsa. Affinché i contribuenti siano onesti, fa d’uopo anzitutto sia onesto lo stato […]. Oggi, la frode è provocata dalla legge” (“L’imposta patrimoniale”, 1946).

Michele Magno

Dateci una Greta del debito pubblico, please