Giuliana De Sio al premio Ferrero: “L’abuso di potere è una cosa schifosa, ma il #meetoo alla fine mi ha nauseata”

Categoria: Italia

L’unica cosa indubbia di tutta questa faccenda è che l’abuso di potere fa schifo e che Weinstein era un porco

FABRIZIO ACCATINO 13.10.2019 La Stampa

ALESSANDRIA. Chi la conosce sa che non ama ammorbidire le sue opinioni, e pazienza se il rischio è il politicamente scorretto. Per esempio, Giuliana De Sio si definisce femminista, ma che del movimento #metoo dice: «Mi ha nauseato. A un certo punto non si è più capito dov’erano le molestie, quali erano le responsabilità. L’unica cosa indubbia di tutta questa faccenda è che l’abuso di potere fa schifo e che Weinstein era un porco. Dopodiché ai bei tempi quelle che l’hanno denunciato si genuflettevano con l’Oscar in mano». Contraddizioni solo apparenti di una delle attrici italiane più complesse e sfaccettate, oggi ad Alessandria per la serata di chiusura del Festival di cinema e critica Adelio Ferrero. In oltre quarant’anni di carriera, Giuliana De Sio è stata capace di regalare volti diversi di sé tanto al cinema d’autore quanto a quello popolare, alla fiction tv, alla commedia musicale, al teatro classico.

Com’è iniziato tutto?

«A 18 anni e un giorno, quando ho lasciato Salerno. Per qualche mese ho fatto tappa nella comune di Terrasini, in Sicilia, conducendo una vita hippie. Poi sono arrivata a Roma e nel ’77 ho incontrato la tv. Il mio esordio fu lo sceneggiato Rai “Una donna”, sulla vita della poetessa Sibilla Aleramo».

Il film più importante della sua carriera?

«“Cattiva” di Carlo Lizzani. È stato l’unico davvero cucito su di me, a partire dalla sceneggiatura di Furio Scarpelli. Interpretavo una pazza curata da un medico alla Jung. Per quel personaggio vinsi tutti i premi possibili, tra cui il mio secondo David di Donatello».

Il primo era arrivato nel 1983. Che cosa ricorda di quell’anno d’oro?

«Che l’ho vissuto interamente sui set. In dodici mesi ho girato tre film di fila: “Sciopèn” di Luciano Odorisio vinse il Leone D’Oro a Venezia per la migliore opera prima, “Scusate il ritardo” di Troisi era il titolo più atteso dell’anno, mentre “Io, Chiara e lo scuro” di Nuti fu un gioiellino inatteso che esplose dal nulla».

Che cosa le ha lasciato la lunga relazione con Elio Petri?

«Tantissimo. Era un uomo intelligente, spiritoso, avanti coi tempi. Molto del buono che c’è in me lo devo a lui».

Sul set di «Speriamo che sia femmina» e «I picari» com’è stato con lei Monicelli?

«Sbrigativo. “Mario, come la devo fare questa scena? ”, “Falla bene”. Tanto con lui non potevi sbagliare».

Com’è stato essere diretti a teatro da Strehler?

«Era onnipresente, penso che sotto sotto sul palco avrebbe voluto andarci lui. Una volta durante le prove di una zuffa ce lo siamo ritrovato che si rotolava per terra accanto a noi».

Lei ha girato in inglese parecchi film italiani, per esigenze di mercato. Che effetto fa?

«È stata una cattiva abitudine del nostro cinema negli anni Ottanta. Giravamo film brutti ma così eravamo convinti di poterli vendere in America. Mi ricordo con Michele Placido su un set: “How are you? ”, “Fine, thanks”. Due idioti».

Cita spesso una frase di Petri: «L’unica linea di resistenza è fare bene le cose». La rispecchia?

«Fare bene le cose è qualcosa di rivoluzionario, perché richiede di lavorare contro il sistema. Ho sempre cercato di fare tutto al mio meglio, anche in contesti che purtroppo non mi assomigliavano».