Altro giro altra corsa. Caro Renzi e cari maggioritaristi, non si può ricominciare sempre da capo

Categoria: Italia

Il fatto che tutti i tentativi di riforma uninominale e presidenziale siano falliti, dopo trent’anni di esperimenti, indica che siamo ormai ben oltre i confini dell’accanimento terapeutico

Francesco Cundari 22.2.2020 linkiesta.it – lettura 3’

Nelle democrazie mature i partiti si accordano sulle regole, una volta per tutte, e si dividono sulle scelte politiche di ogni giorno; in Italia, al contrario, si dividono sulla legge elettorale e si uniscono su tutto il resto: ieri montiani e oggi contiani, rigoristi nel 2011 e populisti nel 2019, a favore della riforma Fornero prima e di quota cento poi, ma sempre tutti insieme, e comunque mai senza l’accordo, almeno, dell'ottanta per cento di tutte le forze parlamentari, sindacali, intellettuali, giornalistiche, televisive, teatrali e cabarettistiche. Questo andazzo prosegue indisturbato dai tempi del governo Dini, il primo governo tecnico di grande coalizione centrosinistra-centrodestra, non casualmente anche autore della prima riforma delle pensioni. E cioè dal 1995, appena due anni dopo il referendum maggioritario voluto per porre fine al deprecato «consociativismo» della prima repubblica e per inaugurare così – grazie al bipolarismo di coalizione previsto dalla legge Mattarella, rimasto sostanzialmente intatto in tutte le leggi elettorali successive – quella stagione di limpida alternanza di governo nella reciproca legittimazione tra gli schieramenti che nei venticinque anni seguenti non abbiamo visto mai, nemmeno per un minuto.

Anche quando centrosinistra e centrodestra raccoglievano il novanta per cento della rappresentanza politica, è piuttosto significativo che abbiamo dovuto abbandonare persino l'apparenza del bipolarismo, con governi tecnici nati in parlamento da accordi tra avversari, per due volte: nel '95, con il già ricordato Dini, per entrare nell’euro; e nel 2011, con Mario Monti, per restarvi. Ed è statisticamente non meno significativo che tali governi siano anche gli autori delle uniche due vere riforme delle pensioni. Non contando, ovviamente, il trucco della riforma modello scarica-barile dello scalone Maroni: quella fatta dal governo Berlusconi, ma programmata per scattare solo con la legislatura successiva, e il successivo governo (Prodi), che comunque si prese la grave responsabilità di cancellarla. A conferma della tesi.

Non credo si possa dare una migliore dimostrazione dell'assoluta inconciliabilità, nella storia italiana degli ultimi trent'anni, tra bipolarismo di coalizione e governabilità: ogni volta in cui siamo stati proprio costretti a prendere decisioni difficili, di fatto, lo abbiamo dovuto sospendere, pena il rischio della bancarotta e dell’isolamento internazionale. Il referendum costituzionale del 2016 è stato l’ultimo tentativo, nella lunghissima serie cominciata dalla Bicamerale D’Alema del 1997, di ridisegnare le regole del gioco in modo da renderle coerenti con il nuovo sistema maggioritario. Il fatto che, per un motivo o per l’altro, tutti i suddetti tentativi siano miseramente falliti, che a promuoverli fossero Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi o Matteo Renzi, dovrebbe farci riflettere. E consentire oggi a tutti, favorevoli e contrari all’idea di trapiantare in Italia il modello Westminster, il semipresidenzialismo francese o il presidenzialismo americano, di riconoscere onestamente che siamo giunti ormai ben oltre i confini dell’accanimento terapeutico.

Dopo quasi trent’anni di esperimenti, seguiti sistematicamente dalle più violente crisi di rigetto, sarebbe ora di lasciare il paziente in pace, prendendo atto del fatto che il patrimonio genetico del nostro sistema politico-istituzionale, inscritto nella nostra Costituzione (e in tutti i meccanismi di nomina che tutelano la divisione dei poteri), è proporzionale e parlamentare. La scelta dell’attuale maggioranza di procedere in quella direzione, restituendo finalmente all’Italia una vera legge proporzionale, senza premi di maggioranza e senza coalizioni pre-elettorali, andrebbe quindi incoraggiata. Tanto più da coloro che, come Renzi, ripetono ogni giorno di non voler consegnare la sinistra al populismo. Anche per evitare un simile esito è necessario infatti lasciare che siano gli elettori a stabilire il consenso dei singoli partiti, senza presentare loro dinanzi alle urne schede pre-compilate, con coalizioni-carovana già assemblate per l'occasione, con tutte le loro contraddizioni, e pronte ovviamente a esplodere, come sempre, all'indomani del voto (salvo poi lamentarsi tutti, ipocritamente, del costante aumento del trasformismo).

La vecchia proposta di Mario Segni del «sindaco d'Italia» rilanciata ora da Renzi, oltre a essere sin dal titolo un perfetto esempio di quel populismo istituzionale che è la madre di tutti i populismi di ieri e di oggi, dal berlusconismo al grillismo, somiglia dunque a una sorta di inconsapevole abiura — per non usare espressioni più triviali — di quel tanto di sforzo riformista che in questi anni, tra non poche concessioni allo spirito del tempo, il leader di Italia viva aveva pur imperfettamente rappresentato.