Populismo italiano Un paese fondato sul chiacchiericcio di Stato

Tutti nel mondo, in un modo o nell’altro, trattano o cercano di liberare gli ostaggi e spesso pagano pure. Il punto è che non lo dicono, e soprattutto non ne discutono come facciamo noi

Francesco Cundari, 14.5.2020 linkiesta.it lettura4’

Contrariamente a quel che si dice, e come dimostra ampiamente l’increscioso dibattito di questi giorni attorno a Silvia Romano, nella politica italiana c’è fin troppa trasparenza. E francamente non è un bel vedere.

Non è solo una questione di incontinenza verbale, ignoranza o insensibilità, che pure abbondano. E riemergono puntualmente nello squallido spettacolo offerto in ogni occasione del genere da una parte della destra italiana, dei suoi politici e dei suoi giornalisti, specialmente quando gli ostaggi sono donne, giovani e impegnate nel volontariato.

Comunque si giudichino le scelte compiute dallo Stato italiano sulla questione degli ostaggi, delle relative trattative e degli eventuali riscatti, la caratteristica che più colpisce, anche rispetto ad altri paesi considerati più coerenti e più intransigenti del nostro, non è tanto sul piano delle scelte concrete, quanto sul piano del dibattito pubblico.

Tutti i paesi, i governi e i partiti politici del mondo, in un modo o nell’altro, trattano o cercano di trattare, e spesso pagano pure. Il punto è che non lo dicono, e soprattutto non ne discutono come facciamo noi.

Il problema è che in Italia il concetto di ragion di Stato è considerato poco meno di una bestemmia. L’idea stessa di segreto di Stato, poi, evoca immediatamente stragi impunite, servizi deviati e crimini insabbiati. Un’associazione che ha purtroppo una ragione storica innegabile, perché siamo stati davvero il paese delle stragi impunite, dei servizi deviati e dei crimini insabbiati.

Una delle radici più solide del populismo italiano sta qui, nel modo in cui questo gigantesco problema reale ne ha generato, per reazione, uno immaginario, ma dalle conseguenze altrettanto nefaste, con la cultura del sospetto, la delegittimazione della politica e delle istituzioni, e la legittimazione di ogni comportamento eversivo, ultra individualista e anarcoide.

In Italia, anche per questo, persino il piccolo imprenditore o il ricco professionista che evade il fisco si atteggia a rivoluzionario in lotta contro la casta della politica corrotta. Mentire, raggirare il prossimo e negare l’evidenza è un diritto riconosciuto praticamente a chiunque, per qualsiasi ragione, dall’adulterio all’appropriazione indebita – sotto sotto, persino ai politici, specialmente se si tratta di adulterio o di appropriazione indebita – ma non allo Stato.

Doppia morale e cattiva coscienza, vizi privati e pubbliche virtù si tengono sempre insieme, e si rafforzano reciprocamente. Così un paese di evasori fiscali si assolve quotidianamente leggendo le invettive contro i politici corrotti, per raccontare a se stesso di non aver commesso un illecito dettato da egoismo e avidità, ma un atto di disobbedienza civile. Di qui il dibattito pubblico più ipocrita dell’occidente avanzato, l’ossessione totalitaria della «casa di vetro», l’incubo orwelliano propagandato da quelli che «non hanno niente da nascondere».

Una deriva autoritaria nascosta dietro la saggezza della nonna («male non fare, paura non avere») che alimenta il commercio di intercettazioni e verbali d’interrogatorio pubblicati, commentati e dibattuti, praticamente in tempo reale, sui giornali e in tv. Come è successo puntualmente anche con le parole di Silvia Romano in procura (l’onorevole Giuditta Pini, del Partito democratico, ha presentato su questo un’interrogazione al ministro della Giustizia, dimostrando se non altro che persino nel Pd non si è spenta del tutto la carica utopistica della sinistra di un tempo).

Forse è vero che la crisi della Prima Repubblica è cominciata con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. Quel sequestro che tanti intellettuali, scrittori e registi hanno poi raccontato sposando di fatto la versione di comodo fornita, successivamente, dai terroristi: descrivendo gli assassini come giovani e ingenui idealisti, desiderosi solo di liberare il prigioniero e cominciare subito a costruire un mondo migliore, raggirati e manipolati dai partiti e dalle istituzioni, capaci di tutto pur di liberarsi di Moro.

Un dibattito in cui hanno avuto un peso enorme le sue lettere disperate, ma anche artatamente e spietatamente manipolate dai carcerieri, come ha dimostrato Miguel Gotor in un libro di qualche anno fa («Lettere dalla prigionia», Einaudi).

Si dice sempre, ed è vero, che in Italia lo Stato ha sconfitto il terrorismo. Ma a rileggere i volantini delle Br contro la «casta» e il «regime democristiano», e a confrontarli con la visione del mondo, le categorie e persino il lessico di tanta parte del giornalismo e della politica italiana di oggi, verrebbe da chiedersi se anche in questo caso, paradossalmente, gli sconfitti non abbiano finito per conquistare i vincitori.

I frutti di questa lunga semina sono ben visibili. Il grottesco dibattito sulle scelte di Silvia Romano, sulle trattative, sul presunto riscatto, evidenziano anzitutto uno spaventoso livello di irresponsabilità, e prima ancora di fanciullesca inconsapevolezza, da parte di politici e intellettuali evidentemente incapaci di misurare il peso e le conseguenze delle proprie parole.

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