L’ora di Zingasconi. Per salvare la democrazia l’unica chance è una super bicamerale col Cavaliere: un contrappasso a cinque stelle

Categoria: Italia

La nemesi della sinistra radical-grillina costretta al patto col Caimano, per evitare che la coalizione nata per togliere i pieni poteri a Salvini glieli lasci già pronti all’ingresso di Palazzo Chigi, sotto lo stuoino del referendum costituzionale

Francesco Cundari, 5.8.2020 linkiesta.it lettura 7’

La nemesi della sinistra radical-grillina costretta al patto col Caimano, per evitare che la coalizione nata per togliere i pieni poteri a Salvini glieli lasci già pronti all’ingresso di Palazzo Chigi, sotto lo stuoino del referendum costituzionale

Elezioni

Assomiglia davvero a una maledizione biblica il fatto che i dirigenti del centrosinistra, dopo tre decenni passati a spiegarci la rava e la fava sullo spirito del maggioritario e la conseguente necessità di dare al paese coerenti riforme costituzionali, dopo averci bruciato sopra governi e leadership politiche a più non posso, dalla bicamerale di Massimo D’Alema al referendum di Matteo Renzi, si ritrovino ora a dover concelebrare, assieme ai loro giubilanti alleati grillini, il grottesco esito di questo trentennale, fallimentare, sanguinoso sforzo riformatore. Vale a dire la riduzione sostanzialmente arbitraria, per non dire casuale, del numero dei parlamentari. Un taglio – ma sarebbe più corretto dire uno scalpo – motivato da ragioni puramente simboliche (cioè demagogiche, cioè antipolitiche e antiparlamentari), del tutto indifferenti alle concrete ricadute pratiche e democratiche della riforma, chiamiamola così, sul principio di rappresentanza e sull’equilibrio dei poteri.

Sarebbe facile, adesso, ironizzare sulla nota con cui ieri Nicola Zingaretti ha rinnovato il suo appello agli alleati affinché si approvi almeno in un ramo del parlamento una legge elettorale proporzionale prima del referendum costituzionale del 20 settembre, che altrimenti rappresenterebbe un pericolo per la democrazia (e che il Pd sembra comunque disposto a votare, ma forse anche no: vai a sapere). Sarebbe facile, ma decisamente riduttivo (gli interessati possono comunque saltare direttamente al terzultimo capoverso, quello che comincia con le parole: «La prima riguarda»).

Facilissimo, e non meno giustificato, sarebbe prendersela con Matteo Renzi, che dopo aver stretto un accordo sul proporzionale con il resto della maggioranza ha cambiato idea e ha deciso di farlo saltare, e pazienza se il risultato sarà che il governo nato con l’obiettivo di negare i pieni poteri a Matteo Salvini glieli consegnerà su un vassoio d’argento, insieme con le chiavi di Palazzo Chigi, belli e pronti, appena lucidati da un bel referendum confermativo e senza nemmeno l’intralcio di una legge elettorale che ne stemperi gli effetti ultra-maggioritari. Sarebbe facilissimo, e infatti è praticamente l’unica cosa che stanno facendo i dirigenti del Pd in questi giorni, ma sarebbe altrettanto riduttivo (gli interessati possono comunque saltare direttamente al penultimo capoverso, quello che comincia con le parole: «La seconda questione»).

Forse invece questo è proprio il momento adatto – almeno tra noi pochi non ossessionati dalle questioni personali e dalle fissazioni ideologiche che hanno funestato la Seconda Repubblica – per provare a tracciare un più onesto bilancio di una lunga stagione, in cui al centro del confronto politico c’è stato pressoché sempre il tema delle regole, elettorali e costituzionali.

Sono passati quasi trent’anni dai referendum che all’inizio degli anni novanta segnarono la fine del vecchio sistema politico, ribattezzato Prima Repubblica in punto di morte, affinché dal confronto con le sue storture meglio potessero rifulgere, per contrasto, le virtù del nuovo sistema, la cosiddetta Seconda Repubblica. Così il mezzo secolo scarso che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla caduta del comunismo, e in Italia grosso modo dalla Liberazione all’inchiesta Mani pulite, è stato sin d’allora complessivamente demonizzato come la stagione del «consociativismo» tra maggioranza e opposizione, conseguenza di una democrazia bloccata e perciò fatalmente incline alla corruzione (mentre poi, invece), all’inefficienza (mica come adesso), alla spesa clientelare e al debito pubblico (lasciamo perdere i paragoni con l’attualità, ché sennò c’intristiamo).

Molte delle critiche al vecchio sistema erano evidentemente fondate, ancorché certo più aderenti alle degenerazioni dell’ultima fase (gli anni ottanta) che all’intera parabola. Per qualche misterioso motivo, tuttavia, la causa principale di questa paralisi del nostro sistema politico venne attribuita non già al fatto che fino al 1989 c’erano stati il muro di Berlino, la divisione del mondo in blocchi e dunque l’impossibilità politica che il Partito comunista, principale forza dell’opposizione, andasse mai al governo in un paese Nato. Niente affatto, la ragione principale per cui l’Italia, terra di confine tra i due blocchi, confinante con la Jugoslavia del maresciallo Tito, ponte sul Mediterraneo e verso il Medio Oriente sia per ragioni geografiche sia per ragioni storiche (la presenza della Chiesa, con la sua politica estera, la sua diplomazia e i suoi interessi), non poteva godere di un normale regime di alternanza tra maggioranza e opposizione era – si disse – legge elettorale proporzionale. La quale di conseguenza, per la proprietà transitiva, acquisiva la titolarità pressoché esclusiva di tutte le storture sopra elencate.

Non mi metterò ora a discutere il merito di questa tesi. Dopo trent’anni di esperimenti, un tale dibattito assomiglia alle discussioni sul comunismo a fine anni ottanta, con i suoi indomiti sostenitori a insistere, almeno nell’occidente democratico, che il sistema era perfetto, era stato solo applicato male. Personalmente ritengo che tra persone mature dovremmo poter concordare su un punto: una teoria che sia stata sempre applicata male, ovunque si sia tentato di applicarla, evidentemente non è una buona teoria. Ma capisco che le grandi ideologie comportano anche legami sentimentali e motivazioni ideali – che si tratti della liberazione del genere umano dalle catene dell’oppressione o da quelle della ripartizione proporzionale dei seggi – e chi sono io per giudicare. Proporrei quindi il seguente terreno d’incontro agli irriducibili sostenitori della rivoluzione maggioritaria (con o senza annesso presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato e tutte le diavolerie di cui sono lastricate le riforme di questi trent’anni): lasciamo perdere il merito teorico della contesa, e riconosciamo serenamente l’esito nefasto di quasi tre decenni di applicazioni infruttuose. Cerchiamo di essere laici: il tempo è scaduto.

Anche perché, ed è l’altro notevole contrappasso di questa incredibile stagione, l’unico modo rimasto al Pd per evitare di compromettere definitivamente gli equilibri costituzionali e consegnare a Salvini (o magari a Giorgia Meloni) i famosi pieni poteri, pensate un po’, è oggi proprio il ritorno alla tanto deprecata proporzionale. Meglio ancora, dopo il voltafaccia di Renzi, l’unica strada è un’intesa sul proporzionale con Silvio Berlusconi. Si torna così alla casella di partenza, nel più grande gioco dell’oca che la politica italiana abbia mai partorito.

Per chi come me ha sempre trovato le campagne di delegittimazione contro qualsiasi tentativo del genere – dalla bicamerale dalemiana al referendum renziano – una delle principali cause della deriva populista dell’Italia, sarebbe un finale coi fiocchi vedere i loro principali promotori e beneficiari costretti a rimangiarsi uno per uno tutti i luoghi comuni, le caricature, i complottismi e le fregnacce con cui hanno svilito il nostro dibattito pubblico in questi anni. Sarebbe davvero uno spasso vederli costretti ad abiurare tutta la pulp fitcion parapolitica sul patto della crostata prima e sul patto del Nazareno poi, con il disegno riformatore che ogni volta (ogni dannata volta, di qualunque cosa si parlasse) ricalcava guarda caso il piano di rinascita nazionale della P2, con tutto il resto del delirante corredo.

Dopo trent’anni passati a denunciare come eversivo l’accordo con Berlusconi sulle riforme prima nella bicamerale del ’97 (quando Giampaolo Pansa, sull’Espresso, coniò l’epiteto di «Dalemoni»), e poi sul referendum del 2016 (quando proprio D’Alema fece involontariamente il verso ai suoi stessi detrattori, agitando lo spettro di «Renzusconi»), vedere ora tutta la sinistra filo-grillina costretta a sperare nel miracolo di «Zingasconi» come unico modo di salvare l’alleanza con i cinquestelle avrebbe tra l’altro un innegabile valore pedagogico. Quello di cui avete bisogno, cari compagni, è una super bicamerale, con tanto di crostata servita fredda, giusto sulla terrazza del Nazareno: buon appetito.

Ci sarebbe da ridere, se al punto in cui siamo arrivati questo non fosse obiettivamente l’unico modo per evitare di scassare definitivamente il nostro sistema democratico. E qui veniamo alle ultime due questioni degne di nota, a proposito cioè del come e del perché – per l’appunto – siamo arrivati a questo punto.

La prima riguarda le responsabilità del Pd. Dopo avere approvato in parlamento il taglio dei parlamentari grillino contro il quale avevano votato per ben tre volte, i democratici sono finiti in una posizione a dir poco imbarazzante. In parole povere, prima Bettini e ora Zingaretti denunciano come una minaccia al sistema democratico una riforma da loro approvata in parlamento, senza nemmeno chiarire se la rivoteranno pure nel referendum di settembre. In pratica, una scena di purissimo Samuel Beckett: «Stanno preparando un golpe, fermateli prima che li voti!». Per giunta, sembrano credere davvero che sia una linea convincente dire che sì, hanno votato una riforma che potrebbe comportare qualche rischio per la democrazia, ma non è mica colpa loro: è Renzi che li ha imbrogliati. D’altra parte, anche un bambino capisce che se la garanzia contro l’esito antidemocratico di una riforma costituzionale è la legge elettorale, bisogna fare prima la legge elettorale e poi il referendum sulla riforma (e magari, già che ci siamo, mettere in Costituzione un qualche vincolo che impedisca di ricambiare il sistema di voto a piacimento).

La seconda questione riguarda le inescusabili responsabilità di Renzi, che dopo essersi giocato il governo sull’ennesima riforma elettorale-costituzionale maggioritaria, avere ricambiato la legge elettorale in senso proporzionale ma non troppo (conservando ad esempio la madre di tutti i nostri problemi: il meccanismo delle coalizioni pre-elettorali), aver voluto il governo giallorosso per negare a Salvini i pieni poteri e aver sottoscritto proprio a questo scopo l’accordo su taglio dei parlamentari e legge proporzionale, adesso è tornato a dire che ci vuole il maggioritario, e anche il presidenzialismo. Meglio, l’elezione diretta del presidente del Consiglio oppure del presidente della Repubblica: uno dei due, a piacere. Come se si trattasse di scegliere tra acqua liscia e acqua gassata al ristorante, fate voi. A questo punto manca solo l’alleato conciliante che proponga un sistema leggermente presidenziale. Tanto mica è una cosa seria. Proprio come il taglio dei parlamentari.

Resta però un ultimo e definitivo interrogativo sullo stato del nostro sistema politico, vale a dire: con riformisti così, a che servono i populisti?