Il mistero delle 60 mila cattedre e il problema folle del sistema scuola

Categoria: Italia

La poca voglia di rischiare nell'anno del Covid e l'impossibilità tragica di far combaciare il posto da insegnante con il suo vincitore. Possibili soluzioni

MAURIZIO CRIPPA 09 SET 2020

Una tragicomica novella russa che si intitola “Il mistero delle dodici sedie”, e ha avuto molte trasposizioni al cinema, narra la disperata ricerca di un tesoro nascosto nell’imbottitura di una sedia andata dispersa tra un’eredità e una vendita all’asta. Ovviamente nessuno riuscirà a trovarla. La trama, a ben guardare, è la stessa di quello che potremmo chiamare “il mistero delle 60 mila cattedre”. Ovvero l’impossibilità tragica, ma anche ridicola, di far combaciare il posto di lavoro nella scuola con il suo fortunato vincitore. La notizia che tra pochi giorni, all’inizio dell’anno scolastico (quest’anno trasformatosi nella cruciale “ripartenza” della scuola da cui si parrà nostra nobilitate) mancheranno circa 60 mila insegnanti è di quelle che creano sgomento, o anche indignazione: è vero, succede tutti gli anni, ma questo non è un anno normale.

Non si poteva far di meglio? Ma come, il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina non aveva annunciato immissioni in ruolo straordinarie? Ma come, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri non ha emanato il decreto di assunzione a tempo indeterminato di circa 85 mila insegnanti (che, in verità, coprono in gran parte il turn over)? Ma come, Azzolina non aveva introdotto (idea in sé non cattiva) la “call veloce” con cui i precari possono mettersi al volo a disposizione delle scuole che abbiano necessità di organico? Ma come, l’idea di fare i concorsi (intanto già slittati all’anno prossimo) non era stata superata dalla “più praticabile” maxi infornata di precari? I “ma come?” potrebbero continuare. E quello che sembra chiaro è che in un momento come questo servirebbe qualcosa in più, e 60 mila cattedre vuote sono un’enormità e una follia.

Ci sono scusanti vere e anche no. Azzolina ha dichiarato che la “call veloce” non ha funzionato perché tra gli insegnanti (il sottinteso è sempre “del sud”) c’è poca voglia di rischiare e trasferirsi. Vero, basta guardare i commenti sui siti specializzati del mondo scuola, e il refrain “eh, come si fa ad accettare un trasferimento per 5 anni…” è assai gettonato. Meglio starsene nella propria regione e aspettare che il posto di lavoro tramite concorso arrivi vicino a casa, no? Ed è vero, ma un po’ meno, quando all’argomento “paura di rischiare” se ne aggiunge un altro: trasferirsi (al nord ovviamente), per uno stipendio basso e con un diverso costo della vita significa spendere tutto in trasferta e viaggi.

Però delle due una: o il divario economico esiste, e allora servono le gabbie salariali anche al contrario; o siamo una repubblica sovietica fondata sull’uguaglianza, e allora restiamo fermi. Ma queste sono storie fisse, cui quest’anno si aggiungono la paura dei contagi (perché andare in una regione a rischio?) e la faccenda dei lavoratori fragili (gli over 55) che dovrebbero/potrebbero non tornare in classe, con quel che ne consegue, anche a livello di psicologia sociale. Chiedersi se non sia ora, per tutti, di rischiare qualcosa in più non è una domanda insensata. Questo è però solo l’aspetto emergenziale del “mistero delle 60 mila cattedre”. Quello che lascia stupiti, volendo persino indignati.

Ma per stupirsi, si dovrebbe non sapere che il problema non è il Covid, non è nemmeno Azzolina. Il mistero delle 60 mila cattedre è molto più semplice e paradossale. O per meglio dire: è semplice e allo stesso tempo incomprensibile. È che non ci sono abbastanza insegnanti per riempire le cattedre. Lo scorso anno – senza pandemia – il governo autorizzò 53 mila assunzioni in ruolo. Ne furono effettuate meno della metà. Perché la questione è strutturale. E a doppiofondo. Il primo livello è che da anni nella scuola è invalso un modus per le assunzioni sdoppiato in due canali: il 50 per cento delle immissioni in ruolo è riservato ai vincitori di concorso, l’altra metà attinge, per prosciugarle, alle graduatorie dei precari (si chiamano infatti “graduatorie a esaurimento”, Gae, e dovrebbero essere chiuse da tre anni). Solo che i concorsi non si fanno e per le materie con più cattedre e le regioni con più studenti, di aventi diritto non ce n’è più. Da anni. E ormai anche le Gae sono in molti casi esaurite.

Ormai si è arrivati ad assumere a chiamata chiunque si offra, o con la famosa “messa a disposizione”. In burocratese, significa che “l’organico di diritto” di un grandissimo numero di istituti non coincide con “l’organico di fatto”. E qui, se si volesse smetterla di correre dietro ai fantasmi e ai misteri delle sedie, bisognerebbe finalmente dire una verità che nessuno vuole dire. E cioè che l’impossibilità pratica da parte del sistema scuola di far coincidere organico di diritto e organico di fatto ha un motivo: sono due sistemi incomparabili, è come far combaciare una sfera e un prisma. Perché, in una nazione in cui le “classi di concorso” per insegnare sono, solo alle superiori, ben cento (da “1/A Aerotecnica e costruzioni aeronautiche” a “100/A Trattamento testi, calcolo, contabilità elettronica ed applicazioni gestionali in lingua tedesca e con lingua di insegnamento tedesca delle località ladine”) e le “tabelle di ripartizione” dei posti alle regione sono fatte annualmente dal centro, può essere che in Veneto non ci sia nessun avente diritto o precario abilitato per “1/A Aerotecnica e costruzioni aeronautiche”, e ce ne siano tre in Puglia.

Ma nessun meccanismo permette, se non su base volontaria, di spostare uno dei tre dove serve. Cosicché lui resterà in Puglia, a fare altro o collocato in “extra organico”. Sembra folle, e lo è, ma è davvero tutto qua. Anche le risposte sarebbero semplici, le sanno tutti da decenni: bisognerebbe abolire i concorsi nazionali e farli quantomeno su base regionale (onde eliminare il noto fenomeno delle richieste di trasferimento, solo lo scorso anno dal nord gli ottomila insegnanti hanno chiesto di tornare al centro-sud). Ancor meglio andrebbero abolite le classi di concorso così specifiche (farne dieci, venti?). O basterebbe abolire i concorsi, istituire un “ordine dei docenti”, come c’è l’ordine dei medici o degli ingegneri, e permettere di assumere direttamente da lì. In terzo luogo, basterebbe consentire ai presidi di assumere direttamente, in base all’esigenza di organico “reale”, come avviene in qualsiasi azienda. Infine, si potrebbe permettere alle scuole di pagare di più chi accetta di trasferirsi da lontano. Domandatevi quanti interessi costituiti (compresa l’esistenza stessa del baraccone di Viale Trastevere) verrebbero minati da queste piccole riforme. E avrete risolto il mistero delle 60 mila cattedre.