L'intervista all'ex ministro della difesa Cervetti, Segretario regionale del Pci in Lombardia

“Occhetto D’Alema e il patto del garage”, retroscena del giorno in cui morì il PCI raccontata da Gianni Cervetti

Umberto De Giovannangeli — 11.9. 2020 ilriformista,it lett.6’

“Mi ricordo, sì, io mi ricordo”. Ed è un ricordo ancora nitido, di un uomo che ha vissuto, da protagonista, un pezzo di storia del Partito comunista italiano: Giovanni “Gianni” Cervetti. Segretario regionale del Pci in Lombardia, capo dell’organizzazione durante la segreteria Berlinguer, è stato eletto alle elezioni europee del 1984. È stato presidente del “Gruppo comunista e apparentati”, membro della Commissione politica e della Commissione per i bilanci. Dal 1989 al 1992 è stato “Ministro della Difesa” del governo ombra del Pci. Ma soprattutto, è stato il depositario di tanti segreti sulla vita interna del partito che, comunque la si voglia vedere, ha segnato la storia dell’Italia repubblicana. A 87 anni, Cervetti mantiene nitida la memoria di quei decenni di vita politica, e nel ripercorrerli con Il Riformista, non è mosso da alcun nostalgismo. Perché se è vero che senza memoria non c’è futuro, quella di Cervetti è una lezione di cui i dirigenti del partito, il PD, che in una sua parte viene da quella storia, dovrebbero far tesoro.

 

Ricordare oggi ciò che è stato un partito che ha segnato la storia di questo Paese, il Pci, non vuol dire fare una operazione nostalgica, ma una riflessione politica. Tu che sei stato tra i protagonisti di quegli anni, che cosa ti sentiresti di ricordare, soprattutto ai giovani che di quella esperienza non hanno neanche il sentore.

Mi sentirei di ricordare il ruolo democratico e nazionale di quel partito, che è stata una caratteristica fondamentale della storia del Partito comunista italiano. Mi piacerebbe che venisse in qualche modo ripresa questa lezione. E questa funzione il Pci l’ha sempre cercata di esercitare pur dall’opposizione. Avere un’ottica di governo non significa mirare al governo “a prescindere”.

In quel partito viveva una dialettica politica forte, della quale erano portatori dirigenti di fortissima personalità, come Giorgio Amendola, Pietro Ingrao, Giorgio Napolitano, Giancarlo Paietta, Emanuele Macaluso. In questo senso, cosa ti è rimasto più impresso nella memoria?

Di tutti quelli che hai richiamato, mi rimangono impresse due caratteristiche: da un lato, il dire ciò che pensavano in maniera netta e chiara, e dall’altro, il continuo tentativo di cercare il confronto con chi aveva una idea diversa dalla propria.

Amendola, a cui tu sei sempre stato molto vicino, e Ingrao erano agli antipodi, per storia, per cultura. Cosa ha fatto sì che due personalità così forti e, al tempo stesso, così diverse tra loro scegliessero di restare dentro lo stesso partito, mentre oggi a sinistra personalità che di certo non hanno la loro statura prendono e si scindono senza soluzione di continuità?

L’accettazione in ambedue del valore dell’unità. Questa è la grande lezione che ci hanno lasciato, sia Amendola che Ingrao, ma che purtroppo vedo oggi smarrita. Tutti e due avevano la volontà forte di affermare le proprie idee, ma contemporaneamente, accettavano il confronto. Anche nelle discussioni più vivaci e persino drammatiche, erano presenti tutte e due queste determinazioni. Nel confronto si tendeva ad affermare le proprie posizioni, ma senza mai arrivare alla divisione. Tra Ingrao e Amendola, quest’ultimo aveva la tendenza, caratteriale ancor prima che politica, allo scontro, ma poi era lui stesso a cercare il confronto. Oggi dal vocabolario della politica italiana, sembrano essere state cancellate parole che per noi, e non parlo solo del Pci ma dei partiti più importanti di quella stagione, erano fondamentali: parole come “unità”, “sintesi”, erano centrali nella nostra formazione politica. Così come lo studio e il rispetto per i militanti, gli iscritti, che erano l’anima di un grande partito popolare come fu il Pci.

Al di fuori dell’agiografia, che peso avuto, anche nei tuoi ricordi, una figura come quella di Enrico Berlinguer?

Mi ricordo una volta che in una riunione di Direzione, uno intervenendo disse: questa cosa deve farla Berlinguer che ha l’autorità per farlo. E lui, interrompendolo, rispose: ma quale autorità, lascia perdere… Dicendo così, Berlinguer si poneva all’altezza degli altri. Non voglio scomodare Gramsci, parlando del partito come “intellettuale collettivo”, ma di certo la determinazione di una linea politica viveva del confronto ad ogni livello. Oggi qualcuno potrebbe dire che era una perdita di tempo, che nell’era del digitale basta schiacciare un tasto o iscriversi a una piattaforma per essere parte dirigente. Ma questa è una idea di partecipazione e di vita democratica che non mi appartiene, e non lo dico per nostalgia del tempo che fu, ma perché sono convinto che una democrazia realmente rappresentativa ha bisogno, un bisogno vitale, di partiti organizzati, di massa, nei quali ognuno si senta parte attiva non solo della pratica ma anche dell’elaborazione di una linea politica.

Tu sei stato un dirigente di primissimo piano del Partito comunista milanese. Quello è stato un partito che ha vissuto stagioni drammatiche…

La prima di queste stagioni è stata quella di Piazza Fontana. La manifestazione che accompagnò i funerali delle vittime dell’atto terroristico che colpì la Banca Nazionale dell’Agricoltura (12 dicembre 1969, 17 morti e 88 feriti, ndr), quella marea di gente, in una giornata plumbea bagnata da una pioggia insistente, era la dimostrazione di grande forza senza alcuna volontà di prevaricazione. Amendola mi disse: «quando ho visto quel muro di folla, ho pensato la democrazia è salva». Quella piazza stracolma di gente, operai, studenti, persone di ogni età e ceto sociale, testimoniava l’incontro di due elementi fondamentali: il sentimento popolare, fatto di dolore, di rabbia, di volontà di difendere le conquiste democratiche sotto attacco. Ma c’era anche quella che un po’ enfaticamente si definiva l’organizzazione. Quella folla fu organizzata.

Tu hai scritto un libro che ha fatto molto discutere e che è stato, per certi aspetti, utilizzato per dire: ma quale diversità il Pci osa rivendicare, visto i finanziamenti che riceve. Mi riferisco a L’oro di Mosca. La testimonianza di un protagonista (Baldini&Castoldi, 1993).

Anche dentro quella storia c’era un punto che è stato peculiare al comunismo italiano: l’autonomia. Questi soldi li riceviamo e li utilizziamo come vogliamo noi. Li utilizziamo per difendere la democrazia, servono per sostenere la nostra linea politica e non c’è nessuno che possa mettere becco, tanto è vero che quando si decise di troncare lo si fece perché eravamo arrivati al punto che non ci si sentiva più sufficientemente liberi. E allora si decise di porre fine a quella storia che si perdeva nella notte dei tempi e che aveva avuto una sua premessa ai tempi del partito clandestino.

In una intervista a questo giornale, Achille Occhetto ha rivendicato, anche con gli occhi dell’oggi, la svolta della Bolognina, ammettendo, però, i grandi limiti nella sua gestione successiva. Cosa ti senti di dire al riguardo?

Che questa è una cosa vera, che ha però la sua radice nel modo in cui è stata fatta la Bolognina. Al fondo delle considerazioni di Occhetto, c’è la convinzione che la responsabilità di tutto è di Massimo D’Alema. Ora, D’Alema ha sicuramente delle grandi responsabilità, però anche Occhetto non può passare per vittima di un complotto ordito dal “deputato di Gallipoli”. Il “patto del garage” aveva rotto una consuetudine…

Il “patto del garage”?

Ma sì, quando Occhetto e D’Alema si incontrarono nel garage di Botteghe Oscure (la storica sede nazionale del Pci, ndr) e dissero: adesso il segretario lo fai tu e poi lo faccio io…In quel garage si misero d’accordo sulla successione. Ma non erano loro due che decidevano. Si decideva in tanti. Quel “patto” maturò dopo la morte di Berlinguer, quando Natta assunse la direzione del partito. Quell’atto lì rompeva un costume che aveva sempre caratterizzato la vita interna del Pci: scelte di quell’importanza dovevano essere decisioni corali, non di due persone.

Che cosa è rimasto di quel sistema dei partiti su cui si è costruita la nostra democrazia. E quale consiglio ti senti di dare al partito, il PD, che, in una sua parte, viene da quella storia?

Quello che va ricostruita è la dialettica dell’unità. Far valere le proprie idee ma in una ricerca continua di unità. Questo binomio dialettica-unità, non è dato una volta per tutte, ma va costruito con pazienza e serietà. Nella fine di quel sistema dei partiti a cui tu facevi riferimento, c’entra anche, e non poco, il venir meno di questa tessitura. Ciò è valso per il Pci come per gli altri partiti della prima Repubblica.

Il 20-21 settembre si voterà per il referendum sul taglio del numero dei parlamentari. Tu che hai vissuto una lunga stagione da parlamentare, che idea ti sei fatto al riguardo?

L’idea che il male non sta nel numero, e che ridurre il problema, reale, di un miglioramento dell’efficienza del Parlamento, a una mera questione numerica, è una visione semplicistica e semplificatoria che non mi appartiene.

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