La piccola Yalta. Il piano di Di Maio per scaricare Raggi e spartirsi col Pd le altre città capoluogo

Categoria: Italia

Il ministro degli Esteri ha detto che non si fossilizza sui nomi, cioè è pronto a lasciare al Partito democratico la candidatura a sindaco di Roma in cambio di un accordo nazionale con gli alleati di governo su Napoli, dove vorrebbe Fico, Torino (non Appendino), Milano (Sala), Bologna (Gualmini) e Trieste

Mario Lavia, 12.10.2020 linkiesta.it

Da tempo si è capito che Virginia Raggi ha imboccato il viale del tramonto e che nessuno pare disposto ad accompagnarla in questa lenta discesa che da Campidoglio porta a casa sua, nemmeno il partito che la tirò fuori dallo studio legale Sammarco portandola nel 2016 al trionfo contro un centrosinistra vittima delle sue stesse macchinazioni. Magari la sindaca riuscirà a ricandidarsi, ma il suo è un nome che non scalda nemmeno i suoi. Luigi Di Maio ieri ha confermato con una specie di lapsus di averla mollata («Non mi fossilizzo sui nomi»). Perché?

Da una parte, come detto, la Raggi è ormai out, non è una candidata che può vincere – secondo molti non arriverà al ballottaggio – e quindi il M5s da questo punto di vista si arrende a un dato di fatto. Poi, in teoria tutto può accadere. Se il centrosinistra non trovasse un accordo e decidesse di suicidarsi andando al primo turno con un esponente del Pd e con Carlo Calenda ci sarebbe la possibilità per Virginia di passare il primo turno. Mai mettere limiti alla provvidenza quando si parla della sinistra romana. E tuttavia è un’ipotesi improbabile, anche all’autolesionismo c’è un limite.

In ogni caso, Di Maio è pronto a perdere Roma in cambio di qualcos’altro: una trattativa complessiva con il Pd sulle sei città capoluogo dove si voterà in primavera, Roma appunto, e poi Milano, Napoli, Bologna, Torino e Trieste.

Un metodo, quello agognato dal ministro degli Esteri, che sembra una piccola Yalta – questo a me quello a te – una spartizione delle città decisa in qualche albergo romano alla faccia del diritto delle singole comunità a decidere, o perlomeno contribuire a decidere, il loro destino. Così, in una logica da vecchio pentapartito, potrebbe finire la breve storia dei meet up, dell’uno vale uno, dei referendum su Rousseau e altre frivolezze della belle époque del populismo pentastellato, un vero funerale del grillismo che fu celebrato in una partita a poker fra maggiorenti nazionali nel segno del bilancino del potere.

Una mega-spartizione che nella testa del ministro vede dunque mollare la Raggi a Roma sperando di chiudere un accordo con il Pd per un nome comune. Ma com’è noto, nella Capitale il Pd è davanti a una scelta complicata: seguire l’idea dell’alleanza con il M5s su un nome di un dem gradito al M5s oppure appoggiare, se si candiderà, Carlo Calenda, un personaggio che sconterebbe la netta ostilità dei grillini e della sinistra radicale oltreché di un pezzo di Pd ma aprirebbe le porte al consenso dei moderati.

Per quanto riguarda le altre città, questo è il piano di Di Maio.

La conferma a Torino, probabilmente su un nome condiviso fra M5s e Pd – non su Chiara Appendino che avrebbe mire nazionali; la poltrona del sindaco di Napoli pronta per Roberto Fico, una destinazione di un certo prestigio per un potenziale dissidente interno, una soluzione soprattutto che verrebbe vista bene da quel Pd che da anni non vede un suo esponente alla guida della Camera dei deputati, e qui il nome di Dario Franceschini è automatico; un sì alla conferma di Beppe Sala a Milano purché concordata a livello programmatico e di composizione della giunta; okay per Bologna al Pd (l’europarlamentare Elisabetta Gualmini ha da tempo buoni rapporti con i grillini); mentre su Trieste la partita è ancora tutta da giocare, ma non è impossibile che si faccia avanti un esponente di Italia viva.

Che questo Monopoli delle comunali veda la luce è un altro discorso. Dipenderà molto dalla dignità del Pd di affrontare la questione, e moltissimo naturalmente dal corso generale degli avvenimenti, perché nessuno può sapere oggi quali saranno fra sei mesi rapporti fra Pd e Cinque Stelle dentro un quadro politico che resta sempre pericolante.