Se il patto con Di Maio lo fa lui è un "contratto", se invece ci prova il Cav. è un "inciucio"

Categoria: Italia

Quando le parole non significano più ciò che significavano prima

SALVATORE MERLO 21.11- 2020 ilfoglio.it e in edicola oggi

Dalla vicenda Salvini, scandalizzato che Berlusconi possa parlare con i 5 stelle, si potrebbe forse ricavare un saggio sul linguaggio che non somiglia alle cose che nomina

Quello che prima veniva chiamato “contratto” ora diventa “inciucio”. E ciò che prima assumeva la dimensione eroica di “governo del cambiamento” ora è solo torbida “ambiguità”. E viceversa. Le parole, diceva Prezzolini, sono fra i nostri nemici, perché ci tradiscono come ambasciatori e ci ingannano come interpreti. In pratica sono al servizio di chi voglia usarle. E spesso congiurano con l’azione, ai danni dell’intendimento. Così, come tutti sanno, l’altro giorno Matteo Salvini si è scandalizzato perché Silvio Berlusconi, a quanto pare, era forse intenzionato a fare adesso quello che il segretario della Lega aveva invece fatto prima: stringere cioè la mano dei Cinque stelle, chissà, giocare anche a governare con loro, finire col dire che “ormai sento Di Maio più di mia mamma”. Accadeva appena due anni fa, quando Salvini si candidava leader della coalizione di centrodestra ma poi subito dopo la spaccava per formare un governo con gli avversari. “Inciucio” o “atto di responsabilità”? Dipende. Estrema infatti è la facilità con la quale, quando sono gli altri a volerle praticare, le larghe intese perdono la loro vaghezza e si fanno più che carnali (“ammucchiata”) oppure finiscono per acquistare un sentore di pettegolezzo da cortile: “Inciucio”, appunto. Così la voglia di intrigare, pastrocchiare e comunque trattare sottobanco diventa improvvisamente responsabilità e fatica, o viceversa il senso di responsabilità e la fatica della politica diventano intrallazzo e orrore. Da tutto ciò si potrebbe forse ricavare, più in generale, un saggio sul linguaggio che non somiglia alle cose che nomina e che non è più nemmeno il vecchio e famoso “dire per non dire e non dire per dire” che fece la fortuna della Prima Repubblica.

 

Certo non è un fenomeno del tutto nuovo, ma trattasi a questo punto del 2020 di malattia infettiva a largo raggio. Il termine inciucio (anzi “inciucione”) venne introdotto nel linguaggio politico nel 1995 da Massimo D’Alema che voleva stigmatizzare le strizzate d’occhio a Berlusconi. Lo stesso D’Alema che poi tuttavia, alcuni anni dopo, guadagnò spazio proponendo quelli che per lui erano “accordi alti e nobili” con il Cavaliere e che invece stavolta, per gli altri, erano – di nuovo – l’eterno ritorno dell’inciucio. Insomma la parola come espediente, elusione, sistema per dire una cosa al posto di un’altra, acrobatica capacità di riferirsi tutti a uno stesso identico fenomeno utilizzando tuttavia termini semanticamente opposti. Sembra il mondo del sottosopra dove anche le parole sono raccolte in un dizionario squinternato con l’ordine alfabetico sovvertito, rimescolato, l’etimo di una parola riferito a un’altra. Quando per esempio governavano insieme, grillini e leghisti, chiamavano il condono “pace fiscale” e l’uscita dall’euro “piano B”, proprio come oggi Dario Franceschini chiama “Netflix della cultura” la solita Italia del cinema col sussidio. E quando i Cinque stelle hanno formato una segreteria politica, come quella dei partiti, hanno deciso di battezzarne i membri con il termine “facilitatori”. Dunque fanno un congresso? Sì, ma lo chiamano “Stati generali”. Organizzano comizi sotto un tendone come faceva Remo Gaspari? Sì, ma li chiamano “Rousseau city lab”. Necessità, miraggi, tic linguistici e soprattutto opportunismi. Inciucio o responsabilità nazionale? Dipende, appunto. E’ forse il marketing della parola che si è accartocciato su se stesso, con l’inquietante e diffusa impressione, però, che se le parole non significano più ciò che significavano un tempo allora c’è il rischio che venga meno l’architrave stessa del consorzio umano. In principio infatti era il logos. Ora il paraculos.