Il peccato originale del Pci che segnò la storia del secolo breve italiano

Categoria: Italia

A cento anni dalla scissione di Livorno, il saggio di Umberto Ranieri indaga i passaggi chiave dello scontro politico e culturale interno al partito

MICHELE MAGNO 09.1. 2021 ilfoglio.it

A cento anni dalla scissione di Livorno, il

saggio di Umberto Ranieri indaga i passaggi chiave dello scontro politico e culturale interno al partito. Tra incertezze e "ambiguità di cui scontiamo ancora le conseguenze"

Il termine riformismo ha un’origine storica precisa. Viene introdotto in Inghilterra, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, nel corso della campagna per l’allargamento del suffragio universale culminata nel “Great reform bill” del 1832, che ampliava l’accesso al voto dei ceti borghesi. La sua nascita, dunque, è legata alla storia della democrazia rappresentativa. Verrà poi usato in contrapposizione al massimalismo rivoluzionario, per designare le politiche di welfare state delle socialdemocrazie europee. La prospettiva di un’economia pianificata e di una società senza classi cede quindi il passo a una concezione secondo cui il capitalismo non va abbattuto, ma “civilizzato” attraverso correzioni graduali delle sue storture e delle sue ingiustizie. In questo senso, Eduard Bernstein sosteneva che “il movimento è tutto e il fine è nulla”. Eppure, nel vocabolario del Pci la voce riformismo è stata a lungo censurata. E’ la questione al centro di Eravamo comunisti, un esemplare saggio fresco di stampa di Umberto Ranieri edito da Rubbettino (prefazione di Giuliano Amato, interventi di Biagio De Giovanni e Salvatore Veca). Esemplare perché, come diceva Alessandro Manzoni, la politica ha bisogno di conoscere la storia, e la politica senza la storia è come un cieco senza una guida che gli indichi la via. E’ proprio il centenario della scissione di Livorno, infatti, la molla della sua ricerca.

Fu allora – il 21 gennaio del 1921– che nacque il Pcd’I, principalmente ispirato dall’intento di rendere il nostro paese partecipe della rivoluzione che aveva Mosca come sua capitale. Quel partito non ha mai realmente sconfessato il suo peccato originale (la forza mai spenta del mito sovietico), e ciò ha avuto un peso decisivo sulla storia del “secolo breve” italiano. Avremmo potuto avere un’economia sociale di mercato sotto la guida di un partito socialdemocratico, osserva Ranieri; abbiamo avuto invece l’assistenzialismo – le spese pagate col debito anziché coi tributi – della gestione democristiana. Tuttavia, la pianta del Pci non aveva radici soltanto a Mosca. Aveva anche robuste radici nazionali, nel proletariato urbano e agricolo come nel mondo intellettuale. E’ fuor di dubbio, e l’autore lo afferma a chiare lettere, che quel mito è stato un forte vettore dell’identità collettiva e del consenso che la creatura di Togliatti ha conquistato nel tempo. Ma, come si chiede Amato, se esso era il sistema nervoso di un corpo che stava crescendo nel contesto di una democrazia parlamentare, perché il Pci non poteva gettare il cuore oltre l’ostacolo e imboccare la strada del socialismo continentale? L’interrogativo fu sollevato da Giorgio Amendola già negli anni Sessanta, seguito da Giorgio Napolitano e Emanuele Macaluso (ai quali è dedicato il libro), e da quanti daranno vita all’area migliorista.

E’ merito di Ranieri, che è stato un suo esponente di spicco, aver dato conto “sine ira et studio” dei passaggi chiave e dei protagonisti della battaglia politica e culturale di quell’area. Una battaglia ancorata “alle imprescindibili lezioni della democrazia liberale e al pensiero socialista democratico. Fu una battaglia difficile. I riformisti non riuscirono a spuntarla. Prevalsero resistenze, incertezze e ambiguità. Ambiguità di cui scontiamo ancora oggi le conseguenze”. La verità è che il Pci non poteva trasformarsi in una socialdemocrazia se non perdendo la ragione sociale della sua nascita: il 1917, ovvero uno spartiacque della storia del Novecento. La direzione di non ebbe tentennamenti sull’Urss, e i “distinguo” di Berlinguer, fissati nella celebre frase sulla fine della spinta propulsiva di quella data, forse troppo sopravvalutata, non interruppero un legame politico che durò fino alla fine. E “la riprova storica sta, clamorosa, nella coincidenza della fine del Pci con la fine dell’Unione sovietica. Simul stabunt, simul cadent” (De Giovanni).