Chi ha ragione tra Biden e la procura di Milano? Preparate i pop-corn

Categoria: Italia

Okonjo-Iweala, neo direttore del Wto per volere della Casa Bianca, è entrata come ex ministro nigeriano nell’inchiesta sulle presunte tangenti Eni. Il processo in una fase decisiva. Per altri manager un lungo elenco di calvari giudiziari

CLAUDIO CERASA 22 FEB 2021 ilfoglio.it  lettura6'

Fossimo in Netflix, avremmo già acquisito i diritti per una serie tv: chi vincerà tra Joe Biden e la procura di Milano? Segnatevi questo nome: “Ngozi Okonjo-Iweala”. Ngozi Okonjo-Iweala è una ex politica nigeriana divenuta qualche giorno fa, per volere soprattutto del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, la prima donna africana a ricoprire l’incarico di direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Il nome di Ngozi Okonjo-Iweala – che come ha ricordato qualche giorno fa il Foglio è un’economista di fama mondiale specializzata in economia dello sviluppo con anni di esperienza alla Banca mondiale – è però un nome che vale la pena appuntarsi sul proprio taccuino anche per ragioni diverse e per provare a capire chi nei prossimi giorni vincerà una partita molto delicata che si giocherà – rullo di tamburi – tra la presidenza degli Stati Uniti d’America e la procura di Milano.

 

A prima vista, la storia potrebbe persino far sorridere. Ma se si presterà un po’ di attenzione si capirà perché intorno al nome del nuovo direttore generale del Wto si gioca un match delicato al centro del quale vi è l’affidabilità dell’Amministrazione americana, la credibilità del sistema imprenditoriale italiano, il futuro di una delle procure più importanti d’Italia e il destino di un’inchiesta mostruosa che riguarda il futuro di una delle più importanti aziende italiane: l’Eni.

L’inchiesta di cui parliamo è quella che vede come protagonista la società guidata da Claudio Descalzi (indagato come il suo predecessore Paolo Scaroni) che da molti anni (cinque di indagini e tre di dibattimento) si ritrova ad affrontare un processo all’interno del quale Eni deve rispondere di un’accusa molto grave: corruzione internazionale. Insieme con Shell, Eni è accusata di aver pagato nel 2011 in Nigeria una maxitangente da 1 miliardo e 92 milioni di dollari (quattro volte il valore attualizzato di quella che finora è considerata la madre di tutte le tangenti in Italia, ossia la somma distribuita nel 1990 da Raul Gardini ai politici italiani che avevano favorito la scissione della joint venture chimica Enimont) e nelle prossime settimane si entrerà nella fase decisiva del processo. Il 24 febbraio le difese controreplicheranno alle repliche dei pm che guidano l’accusa (Fabio De Pasquale, pm in corsa per il dopo Francesco Greco, il cui mandato scade quest’anno, e Sergio Spadaro) e il 17 marzo il tribunale dovrebbe entrare in camera di consiglio per la sentenza di primo grado. Nessuno oggi può prevedere quale possa essere realisticamente l’esito di questo processo e nessuno oggi può sapere se il processo contro Eni si aggiungerà al lungo elenco di incomprensibili calvari giudiziari a cui hanno dovuto far fronte negli ultimi anni alcuni famosi manager italiani.

Un elenco che, a rileggerlo oggi, mette i brividi: nel 2019, dopo anni di calvario giudiziario, sono stati assolti gli ex amministratori delegati di Finmeccanica e AgustaWestland, Giuseppe Orsi e Bruno Spagnolini, in relazione alla vicenda di presunte tangenti per la fornitura di elicotteri all’India; nel 2015, dopo anni di calvario giudiziario, sono stati assolti i 16 manager di Unicredit, tra cui l’ex amministratore delegato Alessandro Profumo, e tre di Barclays, in relazione a una presunta frode fiscale da 245 milioni di euro che sarebbe stata realizzata tra il 2007 e il 2009 attraverso un’operazione di finanza strutturata chiamata “Brontos”; nel 2014, dopo anni di calvario giudiziario, sono state assolte le quattro banche estere, Deutsche Bank, Depfa Bank, Ubs e J.P. Morgan, condannate in primo grado nel dicembre 2012 per truffa aggravata ai danni del Comune di Milano, a causa di operazioni finanziarie compiute durante le giunte Moratti e Albertini; nel 2020 la seconda Corte d’appello di Milano, dopo anni di calvario giudiziario, ha assolto l’ex ad di Eni Paolo Scaroni e la stessa Eni nel processo con al centro il caso Saipem-Algeria su una presunta maxitangente algerina da 197 milioni di dollari; nel 2017 il tribunale di Trani, nel processo per la presunta manipolazione di mercato commessa da cinque tra ex manager e analisti dell’agenzia di rating Standard & Poor’s, ha assolto, dopo anni di calvario giudiziario, tutti gli indagati e ha esteso le assoluzioni anche all’altra agenzia di rating finita sul banco degli imputati, ovvero Fitch.

Nessuno dunque oggi può dire se il processo Eni-Nigeria sarà un incredibile successo da parte della procura di Milano o un incredibile flop da parte della stessa procura.

Quello che però tra i mille intrecci sarà interessante capire è chi avrà ragione tra la procura di Milano e l’Amministrazione americana su un punto specifico che riguarda il nome da cui siamo partiti: Ngozi Okonjo-Iweala. Il caso ha voluto che nel curriculum del neo direttore generale del Wto ci sia un’esperienza che risale a poco prima degli anni alla Banca mondiale e che coincide con un lungo periodo in cui Okonjo-Iweala ha ricoperto il ruolo di ministro delle Finanze della Nigeria (17 agosto 2011-29 maggio 2015). Nel 2011, a fine maggio, prima ancora che Ngozi Okonjo-Iweala diventasse ministro, avviene la prima tranche del pagamento incriminato: i soldi vengono depositati da Eni e Shell su un conto dedicato dal governo federale nigeriano presso la sede di Londra di J.P. Morgan (secondo la procura di Milano, una parte di quei soldi sarebbe stata destinata all’ex ministro del Petrolio nigeriano e ad altri politici e funzionari del paese; Eni sostiene che una volta fatto il versamento dove aveva chiesto il governo nigeriano non “era tenuta a conoscere l’eventuale destinazione dei fondi”) e il 25 maggio del 2011 il predecessore di Ngozi Okonjo-Iweala al ministero delle Finanze, Aganga, trasmette da un hotel di Abuja un fax con le istruzioni a J.P. Morgan per trasferire l’intera somma ricevuta da Eni/Nae sul conto di Bsi Petrol Service. Successivamente, quando l’attuale direttore generale del Wto diventa ministro, avviene una serie di movimentazioni di denaro che secondo i pm di Milano costituirebbero la prova delle tangenti (scrivono i pm di Milano che “i fondi venivano inviati il 24 agosto 2011 presso due conti di Malabu Oil & Gas in Nigeria, uno presso la First Bank of Nigeria e l’altro presso Keystone Bank”).

Il dato interessante, dunque, è che a guidare il ministero delle Finanze impegnato nell’esecuzione dell’accordo tra le compagnie petrolifere e il governo nigeriano c’era proprio lei: la nostra Ngozi Okonjo-Iweala. La procura di Milano, come si desume dalle cronache di questi mesi, considera dunque un reato lo stesso accordo risolutivo tra il governo nigeriano e le compagnie petrolifere che la neo direttrice generale del Wto ha lasciato eseguire senza mai contestarlo. E da questo si desume che tra qualche giorno, quando il tribunale di Milano deciderà che strada prendere in questo processo (la procura ha chiesto otto anni per De Scalzi e Scaroni e la confisca di un miliardo e 92 milioni di dollari), si capirà anche qualcosa di sfizioso e quasi di cinematografico che va al di là della singola inchiesta. Avrà avuto ragione Biden – che ha scelto di premiare l’ex ministro nigeriano al Wto anche in virtù del suo impegno contro la corruzione – o avrà avuto ragione la procura di Milano che non si è fidata del curriculum di Ngozi Okonjo-Iweala?

E soprattutto: la procura di Milano ha fatto tutto quello che poteva fare (whatever it takes) per accertarsi che il processo del secolo a una delle aziende simbolo del paese (processo da cui dipenderà anche il futuro di alcuni dei magistrati impegnati nell’indagine) abbia basi un po’ più solide rispetto a casi giudiziari poco fortunati come quelli elencati qualche riga fa (da Finmeccanica a Trani passando per Saipem)? Fossimo in Netflix, tra uno spettacolo e l’altro della stagione Draghi, avremmo già acquisito i diritti per una serie tv. Buona visione.