Cosa non va sui vaccini. L'Italia era il secondo paese in Ue per vaccinati in rapporto alla popolazione, ora è il ventesimo.

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Ed è tra gli ultimi per copertura degli over 80. Il “Piano strategico” contiene solo raccomandazioni etiche sulle priorità, nella realtà ci sono 21 piani regionali diversi. Non eravamo pronti, ma una svolta è possibile. E' ciò a cui sta lavorando il governo Draghi

LUCIANO CAPONE E GIOVANNI RODRIQUEZ 23.2. 2021 ilfoglio.it lett.7’

"Siamo al secondo posto in Europa per vaccini somministrati in rapporto alla popolazione dopo la Danimarca”, diceva fino a poco fa Domenico Arcuri. Il Commissario per l’emergenza non tiene più conferenze stampa da oltre due settimane, ma se dovesse aggiornare gli italiani sull’andamento delle vaccinazioni, oggi dovrebbe dire: “Siamo al ventesimo posto in Europa per vaccini somministrati in rapporto alla popolazione dopo Danimarca, Polonia, Romania, Grecia, Portogallo, Spagna, Germania, Svezia…”. In circa un mese, senza che nessuno se ne sia accorto, l’Italia è scivolata in fondo alla classifica e ora è nettamente al di sotto della media e della mediana europee. Da settimane si sente la litania secondo cui la colpa dei ritardi è delle case farmaceutiche, ma i fornitori sono gli stessi per tutta l’Ue e non c’è una difformità negli approvvigionamenti che colpisce particolarmente l’Italia. Semplicemente in Italia è aumentata la quota di dosi non somministrate: una su quattro, il 25%, è ferma in freezer. E allora cosa è cambiato rispetto al folgorante inizio?

L’impressione è che l’Italia è andata benissimo nella prima fase perché stava raccogliendo i low hanging fruit, le vaccinazioni più semplici da fare, quelle per le persone più informate e più facili da contattare e convocare (medici, personale sanitario e Rsa). Quando si è usciti dalle strutture sanitarie per vaccinare la popolazione, a partire dai più anziani, sono cominciate le difficoltà. C’è un dato che, insieme al peggioramento relativo rispetto all’andamento europeo, mostra questa dinamica: l’Italia è tra gli ultimi in Ue e il peggiore tra i grandi paesi nella vaccinazione degli anziani, ovvero tra la popolazione maggiormente a rischio. Secondo l’analisi di Matteo Villa dell’Ispi, basata sui dati dell’Ecdc (Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie), l’Italia è ferma al 6% di over 80 vaccinati con una dose, poco sopra alla Lituania (3%) mentre “quattro paesi europei (Polonia, Repubblica Ceca, Finlandia e Svezia) hanno già somministrato almeno la prima dose di vaccino al 25% o più dei loro ultra-ottantenni. Francia (23%) e Germania (22%) seguono a ruota: entrambi sono due grandi paesi europei con una popolazione comparabile alla nostra, e con una quota di ultra-ottantenni altrettanto paragonabile”.

Rispetto a un mese fa, è cambiato il target delle persone da vaccinare.

L’arrivo del vaccino AstraZeneca con la prima indicazione da parte di Aifa di un suo utilizzo solo per gli under 55 ha portato a uno stravolgimento della strategia con un’apertura anticipata della fase della vaccinazione di massa. In funzione di questa nuova necessità, si è passati dalle quattro “fasi” di priorità (settori essenziali, fragilità, anzianità, resto della popolazione) alla previsione di due percorsi paralleli: prosegue la prima fase con la vaccinazione degli operatori sanitari, ospiti delle Rsa e over 80 con i vaccini di Pfizer e Moderna; e nel contempo è iniziata la somministrazione di massa del vaccino AstraZeneca su under 55 e “non fragili” a partire da categorie ben definite, come forze dell’ordine e personale scolastico. Ma eravamo pronti alla vaccinazione di massa? La risposta, visti i numeri, è no. O almeno non lo eravamo in larga parte del paese. Questo perché il cosiddetto “Piano strategico vaccinale contro il Covid” in realtà non è un vero piano, ma solo una serie di raccomandazioni etiche sulle priorità. La sua declinazione sul territorio, sotto il profilo operativo, è invece quasi totalmente demandata alle regioni con il Commissario straordinario che si occupa di coordinare e supportare logistica e pianificazione. Bocciato definitivamente con l’arrivo di Mario Draghi al governo il progetto “Primule”, ovvero i padiglioni “evocativi” temporanei da costruire nelle piazze delle città, sono le regioni a dover stabilire la localizzazione fisica dei punti vaccinali, il coordinamento operativo degli addetti e il controllo sull’esecuzione delle attività. Al livello centrale, invece, compete la definizione delle procedure, degli standard operativi e dei layout degli spazi che dovranno essere utilizzati per l’accettazione, somministrazione e sorveglianza. Eppure, anche queste indicazioni di massima sembrano mancare.

Il coordinatore nazionale della Commissione Salute della Conferenza delle regioni, Luigi Icardi, spiega al Foglio che oltre al testo aggiornato del decreto del Ministero con l’indicazione delle categorie da vaccinare in via prioritaria, “non c’è nessun altro piano nel quale venga spiegato come implementare sul territorio la fase di vaccinazione di massa, altrimenti non staremmo ancora a discutere su come dover procedere. Ogni regione si sta organizzando autonomamente. Hanno lasciato la scelta a noi, ci sono norme che disciplinano i locali per le vaccinazioni, abbiamo usato questo come riferimento”. E già da qui potremmo avere la prima causa del rallentamento delle vaccinazioni. Se infatti inizialmente sapevamo di avere 293 punti di distribuzione sul territorio che coincidevano con quelli di somministrazione, dal momento che le vaccinazioni avevano interessato strutture sanitarie e Rsa, con un ‘target’ di persone facilmente intercettabile, ora con la vaccinazione di massa tutto cambia.

Sappiamo che a oggi sono stati individuati circa 2 mila punti di somministrazione. Ma non si ha ancora alcun dettaglio su quali requisiti debbano avere questi punti, quale bacino di popolazione dovranno servire o quale numero di vaccinazioni dovranno garantire al giorno. Abbiamo quindi 21 differenti piani regionali senza che a livello centrale ci sia qualcuno capace di definire e verificare standard minimi comuni. E questa differenza è visibile dal fatto che ci sono grandi differenze tra regioni: si va dal 60% di dosi somministrate di Calabria e Liguria all’80-85% di Campania e Toscana (provincia di Bolzano e Valle d’Aosta sono oltre il 90%). Le divergenze sono consistenti anche sul piano qualitativo: la regione Lazio, che ha somministrato il 77% delle dosi disponibili, è anche una delle più efficienti nel raggiungere la popolazione anziana con circa il 20% di over 80 vaccinata (rispetto a una media nazionale del 6%). Il tasso di presenza agli appuntamenti prenotati è stato del 98%, dunque i “panchinari” chiamati per dare copertura a chi ha saltato l’appello sono stati solo il 2%. Il Lazio “si è ispirato al modello israeliano” dice al Foglio l’assessore alla Salute Alessio D’Amato.

Nel piano nazionale si prevede poi un coinvolgimento dei medici di famiglia e delle farmacie nella campagna di vaccinazione. Per quanto riguarda i medici, solo ieri è stato siglato un protocollo d’intesa che però, anche in questo caso, rimanda quasi tutto alle regioni: dalla platea di persone da vaccinare ai luoghi di somministrazione fino all’organizzazione e alla logistica. Per quanto riguarda invece le farmacie, la legge di Bilancio rimanda a “specifici accordi con le organizzazioni sindacali rappresentative delle farmacie”. Anche in questo caso il rimando è a “singoli accordi” con le regioni, già conclusi però solo su alcuni territori. Eppure le farmacie potrebbero svolgere un ruolo fondamentale data la loro capillare presenza a livello nazionale. Specie quelle rurali, per raggiungere anche i paesi più piccoli e distanti dai grandi centri vaccinali. Ma uno dei principali ostacoli sembra essere rappresentato dalla carenza di medici disposti a seguire le vaccinazioni in farmacia. Nella norma, infatti, si spiega che per la vaccinazione in farmacia è necessaria la supervisione di un medico. E arriviamo così al problema legato al personale. Nei mesi scorsi, al bando per reclutare 15 mila vaccinatori hanno risposto in circa 24 mila professionisti. Delle domande completate, 14.808 sono state inoltrate da medici, 3.980 da infermieri e 408 da assistenti sanitari. A oggi, come spiegato dal commissario Arcuri nel corso di una delle ultime conferenza stampa, alle squadre di vaccinazione delle regioni si sono uniti 1.295 dei medici e infermieri, “cui si aggiungeranno un altro migliaio di operatori a partire da questa settimana”. Anche qui, siamo indietro rispetto alla tabella di marcia. Nelle slide presentate da Arcuri lo scorso 6 gennaio l’obiettivo per febbraio era quello di avere 4.525 operatori sul campo dedicati alle vaccinazioni. C’è poi da notare che ad aprile si dovrebbe salire a 12 mila operatori, per poi raggiungere nei mesi estivi – da luglio a settembre – un picco di 20 mila unità di personale. I dubbi non mancano, dal momento che, a seguito della rimodulazione del piano degli approvvigionamenti, sappiamo già che a partire da aprile ci sarà un importante balzo con l’arrivo di oltre 52,4 milioni di dosi da dover gestire nel secondo trimestre. “Non arriva a sufficienza quello promesso da Arcuri, mancano gli infermieri, sono pochi quelli che hanno aderito al bando”, spiega Icardi al Foglio.

Insomma, i dubbi sul fatto che il paese sia già pronto sul piano organizzativo e logistico alla fase di vaccinazione di massa sono tanti. Al momento la scarsità delle dosi sta avendo un ruolo ambivalente, da un lato è un tetto rispetto alla capacità di vaccinare delle regioni più preparate e dall’altro è un velo che nasconde le inefficienze di quelle meno organizzate. Di questa carenza del piano nazionale ne sono consapevoli anche gli esperti del ministero della Salute e del Comitato tecnico scientifico, che da un lato sono preoccupati ma dall’altro confidano nella “resilienza” del sistema. Una parola di moda nell’ultimo periodo, ma che tradotta sembra voler indicare la capacità tutta italiana di arrangiarsi nelle difficoltà. E’ probabile che in molte regioni andrà così, ma cosa succederà in quelle più inefficienti che già ora, con poche dosi, arrancano? C’è forse bisogno di una svolta, o quantomeno di un nuovo indirizzo. Date le poche parole sul tema nel discorso al Senato c’è la sensazione che il presidente Draghi intenda cambiare qualcosa. Ma non c’è molto tempo a disposizione, al momento è la risorsa più scarsa e continuerà a esserlo anche dopo l’arrivo dei vaccini.