I danni della seconda Repubblica. Draghi spiega il fallimento del sistema politico, ma i partiti pensano di restaurarlo

Categoria: Italia

Nel Recovery Plan il premier elenca i dati (non solo economici) che certificano il declino italiano nell’ultimo quarto di secolo. In un paese normale si discuterebbe di come cambiare le condizioni che hanno consentito tutto questo. Noi invece, a cominciare dal Pd, siamo impegnati a perseverare

Francesco Cundari , 5.5.2021 linkiesta.it lettura4’

Nelle poche pagine della premessa al Piano nazionale di ripresa e resilienza, presentato ieri dal governo nella sua versione definitiva, Mario Draghi ha piazzato un elenco di dati piuttosto eloquente.

Se avessimo un sistema politico e un dibattito pubblico in condizioni appena appena decenti, a porlo al centro della discussione non sarebbe un tecnico; siccome sistema politico e dibattito pubblico sono quelli che sono, nonostante tale analisi campeggi da giorni sulle primissime pagine del documento da tutti giudicato il più importante di sempre per il futuro dell’Italia, la discussione non è nemmeno cominciata.

Anche perché le forze politiche sono impegnate a parlare di tutt’altro, nel migliore dei casi. Quando non hanno imboccato proprio la direzione opposta.

Razionalmente, l’analisi di Draghi parte dalla considerazione che la pandemia ha colpito un paese già molto fragile. Occhio alle date: «Tra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e del 43,6 per cento».

E ancora: «Tra il 2005 e il 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3 per cento al 7,7 per cento della popolazione – prima di aumentare ulteriormente nel 2020 fino al 9,4 per cento».

Basterebbero queste poche righe per emettere una sentenza senza appello sul sistema politico che ha accompagnato un simile declino, pur vedendo una perfetta alternanza di governo tra le principali coalizioni di centrodestra e centrosinistra, che dal 1994 in poi si sono date il cambio (o hanno governato insieme) in modo pressoché paritario.

Invece non si parla d’altro che di come restaurarlo, quel bel sistema, e del timore, da sempre agitato come uno spauracchio (e come un alibi), che l’Italia possa «tornare indietro», alla deprecata Prima Repubblica. Senza che nessuno si sia mai fermato a fare un po’ di conti e a tracciare un onesto bilancio della Seconda. Fino a oggi.

L’Italia, prosegue Draghi, è il Paese dell’Unione europea con «il più alto tasso di ragazzi tra i 15 e i 29 anni non impegnati nello studio, nel lavoro o nella formazione (Neet)», mentre il tasso di partecipazione delle donne al lavoro è solo il 53,8 per cento, molto al di sotto del 67,3 per cento della media europea.

E poi: «Dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2 e del 21,3 per cento».

E ancora: «La produttività totale dei fattori, un indicatore che misura il grado di efficienza complessivo di un’economia, è diminuita del 6,2 per cento tra il 2001 e il 2019, a fronte di un generale aumento a livello europeo».

E infine: «Nel ventennio 1999-2019 gli investimenti totali in Italia sono cresciuti del 66 per cento a fronte del 118 per cento nella zona euro. In particolare, mentre la quota di investimenti privati è aumentata, quella degli investimenti pubblici è diminuita, passando dal 14,6 per cento degli investimenti totali nel 1999 al 12,7 per cento nel 2019».

Ci sarebbe anche qualcos’altro, ma il lettore interessato può andare a leggersi il documento per intero. Tanto più che la tesi da cui ero partito – il fatto cioè che quei dati certifichino al di là di ogni ragionevole dubbio il completo fallimento della cosiddetta Seconda Repubblica – mi pare ampiamente dimostrata. Per completezza d’informazione, devo solo aggiungere al quadro un paio di elementi significativi.

Il primo è che lo stesso Draghi, dovendo trovare un argomento per infondere un minimo di fiducia al termine di un’analisi così disperante, che cosa dice? Questo (di nuovo, occhio alle date): «La storia economica recente dimostra, tuttavia, che l’Italia non è necessariamente destinata al declino. Nel secondo dopoguerra, durante il miracolo economico, il nostro Paese ha registrato tassi di crescita del Pil e della produttività tra i più alti d’Europa. Tra il 1950 e il 1973, il Pil per abitante è cresciuto in media del 5,3 per cento l’anno, la produzione industriale dell’8,2 per cento e la produttività del lavoro del 6,2 per cento. In poco meno di un quarto di secolo l’Italia ha portato avanti uno straordinario processo di convergenza verso i paesi più avanzati. Il reddito medio degli italiani è passato dal 38 al 64 per cento di quello degli Stati Uniti e dal 50 all’88 per cento di quello del Regno Unito».

Signori della giuria, non ho altro da aggiungere.

Ma stavo quasi per dimenticare il secondo e ultimo dettaglio di cronaca che avevo promesso. Vale a dire le principali proposte politiche avanzate in queste stesse settimane dal segretario del Partito democratico, Enrico Letta: un patto per il lavoro «come nel ’93», una legge elettorale «simile al Mattarellum» (inaugurata alle elezioni del ’94), una coalizione «modello Ulivo», come quella presentata per la prima volta alle elezioni del ’96.