DaleMao. La passione di D’Alema per il Dragone comunista e la freddezza per il Draghi atlantista

Categoria: Italia

Mentre il presidente americano e il nostro presidente del Consiglio ricostruiscono il rapporto euro-atlantico, l’ex premier resta antiamericanista e terzomondista ed esprime ammirazione per il regime autoritario di Pechino

Mario Lavia 17.6.2021 linkiesta.it lettura4’

“DaleMao” sembra il nome di un centrocampista brasiliano di quelli estrosissimi, invece è un nomignolo che circola per identificare il Massimo D’Alema folgorato (ma da mo’, si dice a Roma) sulla via di Pechino.

Data l’autorevolezza del personaggio, ex premier, ex ministro degli Esteri, ascoltato interlocutore di Giuseppe Conte, padre spirituale di una forza che siede al governo con il figlioccio Roberto Speranza – quello che per l’altro grande vecchio di LeU, Pier Luigi Bersani, «ha salvato l’Italia» – ecco, dato tutto questo, la questione forse non va derubricata al “bastiancontrarismo” del Nostro (definizione di Francesca Sforza, La Stampa).

Trattandosi di LeU, cioè di un partito che non conta niente, non è certo il caso di prevedere un chiarimento sulla politica estera, saldamente nelle mani di Mario Draghi, protagonista assoluto sulla scia di Joe Biden del G7 in Cornovaglia, e tuttavia viene da chiedersi quanto l’orientamento filocinese di D’Alema sia condiviso in un pezzo, sebbene minoritario, della sinistra italiana.

La domanda diventa poi cruciale considerando il rovescio della medaglia della simpatia filocinese dell’ex premier, che consiste nel solito vecchio antiamericanismo riverniciato come al solito con una strumentale preoccupazione sulla coesistenza e sulla pace nel mondo: gli Stati Uniti, insomma, visti sempre come portatori di una cultura dello scontro (di civiltà o anche “solo” economico-militare) secondo i dettami più tradizionali di una sinistra con i capelli bianchi che non è mai veramente uscita dalla Guerra fredda e dalla logica dei blocchi; una sinistra oggi priva di strumenti analitici per comprendere il senso di quel bidenismo che improvvisamente ha spazzato via la comoda iconografia dello Zio Sam impersonificata da ultima nella tragicomica maschera di Donald Trump.

Il problema per quest’area insomma starebbe nel contenere quello che una volta si definiva “imperialismo” e che dopo la fine del marxismo-leninismo a sinistra non si sa più come chiamare, mentre il tema del XXI secolo pare piuttosto un altro, quello del superamento di tutti i regimi totalitari, Cina inclusa, mediante una nuova pratica del multilateralismo democratico e l’installazione di un sistema pacifico e condiviso delle relazioni internazionali.

Ora è iniziata con sconvolgente velocità «la nuova stagione» (Andrea Bonanni, La Repubblica), fondata sulla ricostruzione di un “patto atlantico” aggiornato ai nostri tempi.

Il viaggio europeo di Biden ha cambiato i termini della situazione internazionale e ha posto il sigillo alla ricostruzione del rapporto euro-atlantico: è esattamente la linea del governo Draghi così come venne illustrata chiaramente in Parlamento nel dibattito sulla fiducia, una visione di portata storica che né un’intervista di D’Alema né un visita di Beppe Grillo all’ambasciata cinese possono turbare e che per la sua forza propone in termini diversi la questione dei rapporti commerciali con Pechino.

Come ha detto David Sassoli al Corriere della Sera, «adesso la novità è che si decide ad affrontare insieme la concorrenza commerciale».

E infatti dalla Cornovaglia è partita la sfida alla Nuova via della Seta, con un consistente piano infrastrutturale alternativo a quello cinese. L’iniziativa americana prenderà il nome di “Build Back Better World”, ed è di fatto una contromossa dell’America, affiancata da Italia, Francia, Canada, Germania, Giappone, Regno Unito, alla competizione economica del Dragone.

Paradossalmente, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio preoccupa meno perché uno così abituato a voltare gabbana non ci metterà molto ad adeguarsi. Ma il privato cittadino Massimo D’Alema, che è più influente del ministro, che dice?

Di fronte alla sfida che Stati Uniti e Europa hanno lanciato alla Cina dalla Cornovaglia, e su un altro piano Biden a Putin nel faccia a faccia di ieri a Ginevra, i naufraghi della Guerra fredda pencolano dunque pericolosamente verso Pechino (la Russia a questo fine è inservibile) per contenere il nuovo atlantismo firmato Biden-Draghi-Macron (e anche Johnson), in ragione dell’antico pregiudizio antimericano.

Massimo D’Alema è stato sempre percorso da una certa scettica sufficienza verso Washington, a un certo punto mitigata nell’epoca in cui si sentiva “pari grado” di Bill Clinton (e fu la sua migliore stagione) per poi ripiombare nel vecchio vizio malgrado una infatuazione un po’ provinciale per la collega Condoleezza Rice (ricordiamo tutti il fantastico «Bye bye Condy») e poi di nuovo gelido verso l’obamismo che tanto piaceva a Renzi.

Pur mai essendo filosovietico, egli è comunque figlio di una cultura terzomondista e “antimperialista” che per esempio lo ha sempre schiacciato su posizioni ostili a Israele e di appoggio a discutibili esperienze di governo sudamericane.

Quanto alla Cina – tralasciando qui l’aspetto degli interessi personali, le consulenze, l’export del suo vino – l’ex segretario del Pds-Ds ha avuto fin da giovane (ha raccontato spesso la sua prima visita a Pechino nel 1978 da segretario della Fgci) una vera ammirazione per il partito comunista cinese: «La cosa più importante che la Cina è riuscita a fare è fare uscire almeno 800 milioni di persone dalla povertà – ha detto l’altro giorno alla tv cinese – è un risultato straordinario. Mai nessun Paese nella storia dell’umanità è riuscito a realizzare una così immensa trasformazione della vita delle persone».

Nel conto mancano i milioni di esseri umani uccisi, deportati, torturati dal regime di un feroce autocrate come Mao, ma il punto dolente qui – lo ripetiamo – è l’assenza di una cristallina, netta, convinta scelta di campo a favore di “America is back” come premessa indispensabile per il futuro del pianeta; ed è davvero strano, e anche un po’ triste, che un uomo di sinistra come lui non colga la portata del nuovo vento atlantico e si crogioli ancora nell’idea del «declino dell’egemonia americana», come ha scritto di recente.

Può darsi che questo controcanto filocinese sia conseguenza anche del fastidio dalemiano per l’azione di Draghi e effetto del rancore non metabolizzato per la botta presa dall’amico Giuseppe Conte.

Ma questa non è un attenuante. Anzi, rende ancora più inquietante il fatto che la sinistra minoritaria sia in così grave ritardo nella comprensione del nuovo ciclo storico che si è aperto con la vittoria di Biden. «Grande è la confusione sotto il cielo», recita il titolo dell’ultimo saggio dalemiano riprendendo la celebre frase di Confucio attribuita a Mao: ma la sua non è certo confusione, è molto peggio, è un voler restare aggrappato a vecchie credenze di gioventù mentre il tempo tutto ha cambiato.