Opposizione ombra. Il governo Draghi è la conseguenza di un vincolo interno, chiamato anche istinto di sopravvivenza

Categoria: Italia

I nostalgici del contismo parlano delle scelte dell’esecutivo come se fossero duri sacrifici imposti da qualcun altro (l’Europa? la troika? la Cia?). È comprensibile che lo facciano i grillini. Stupisce che ci caschi la sinistra

Francesco Cundari 3.8.2021 linkiesta.it lettura4’

È comprensibile che Giuseppe Conte, come tanti altri ex presidenti del Consiglio prima di lui, sostenga che i buoni risultati economici di oggi siano merito del governo precedente; che le riforme varate dall’esecutivo attuale, a cominciare da quella della giustizia, siano piene di difetti, dovuti alla natura eterogenea della maggioranza; e che, più in generale, questo non sia certo il suo governo ideale. Il fatto che il leader in pectore del Movimento 5 stelle faccia simili affermazioni nella sua intervista di ieri alla Stampa non può stupire nessuno. Stupisce che argomenti analoghi siano sostenuti dalla sinistra.

Non c’è bisogno di ricordare ancora una volta la surreale ricostruzione di Goffredo Bettini (messa nero su bianco in un documento ufficiale) in cui si attribuiva la caduta del governo Conte a una «convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli». Sull’incongruo utilizzo di analisi e categorie anni settanta per spiegare il passaggio dal governo Conte al governo Draghi, neanche si trattasse davvero del colpo di stato in Cile, con l’ex capo dell’esecutivo gialloverde nei panni di Salvador Allende e l’ex presidente della Bce in quelli del generale Pinochet, si è già molto ironizzato (anche se mai abbastanza).

C’è però un’altra e non meno fuorviante analogia nella propaganda di quella parte della sinistra che più rimpiange i tempi del governo giallorosso, chiaramente riconoscibile nell’utilizzo di un repertorio retorico che gioca sempre sulla contrapposizione tra tecnocrazia e democrazia, sovranità nazionale e imposizioni europee, autonomia della politica e vincoli internazionali. Un repertorio che sembra confondere il governo Draghi con il governo Monti, per non dire semplicemente con la famigerata troika. Una lettura figlia di quel vecchio schema secondo cui l’Italia, prigioniera di partiti capaci solo di accumulare debiti per pagare una spesa pubblica improduttiva e clientelare, può riformarsi solo grazie a un rigido vincolo esterno, rappresentato dall’Europa, che imporrebbe i duri sacrifici necessari alle renitenti forze politiche (così renitenti da affidarne sistematicamente l’esecuzione, e quindi la responsabilità, a governi tecnici).

Non è il caso qui di intrattenersi in un’oziosa discussione su meriti e demeriti di una simile lettura, su quanto sia fondata o invece strumentale, conseguenza o invece causa (o perlomeno concausa) della debolezza politica che denuncia.

Nel caso del governo Monti, per fare solo un esempio, personalmente, continuo a pensare che sarebbe stato meglio andare alle elezioni, se non già nel 2011, perlomeno subito dopo, una volta usciti dall’emergenza causata dall’impennata dello spread, dunque nella prima metà del 2012 (ci fu chi lo propose e chi preferì tenersi il governo tecnico fino alla fine della legislatura: e sì, i secondi sono gli stessi che oggi fanno i rivoluzionari, ma non divaghiamo).

La differenza fondamentale tra allora e oggi che mi sembra più utile sottolineare è che allora si parlava per l’appunto di partiti giudicati troppo inclini alla spesa pubblica e di un’Europa che imponeva tagli e sacrifici – le politiche di austerità messe in atto dai famigerati tecnici – mentre oggi accade l’esatto opposto. Oggi dall’Europa vengono miliardi di euro da investire per il rilancio dell’economia italiana, e il presidente del Consiglio, in conferenza stampa, dice chiaro e tondo che considera questo il momento di dare i soldi, non di prenderli. Ma soprattutto oggi non c’è stata nessuna impennata dello spread, né altro fattore esterno, a condizionare la scelta compiuta dal parlamento, dalle forze politiche, dal presidente della Repubblica, nel decidere di affidare a Mario Draghi il governo che avrebbe dovuto guidare lo sforzo riformatore necessario per non perdere quei finanziamenti e l’ultima occasione di tirarci fuori dai guai. Guai grossi, in cui già stavamo sprofondando, dopo decenni di crescita allo zero virgola, ma che la pandemia aveva ovviamente spaventosamente aggravato (e questa è la vera ragione per cui siamo stati tra i maggiori beneficiari dei fondi europei, non certo le discutibili arti retoriche di Giuseppe Conte).

La situazione in cui ci troviamo è dunque l’esatto opposto della raffigurazione propagandistica, più o meno esplicitamente evocata, del governo tecnico imposto dall’Europa, venuto a imporre le ricette della troika a una politica in disarmo. L’attuale esecutivo non è figlio, e nemmeno nipote, di alcuna oscura «convergenza d’interessi» internazionali, e di nessun vincolo esterno. È al contrario l’ultimo disperato scatto di un sistema politico che si stava pericolosamente avvitando su se stesso, a un passo dal baratro, su entrambe le principali emergenze del paese: sanitaria ed economica.

Comunque si giudichino i risultati ottenuti da Draghi su entrambi questi fronti – io li giudico complessivamente piuttosto bene e mi pare che la pensi così anche una larga maggioranza degli italiani – è importante riconoscere che quei risultati sono il frutto di un sussulto di responsabilità delle forze politiche e del sistema istituzionale, che non ci ha imposto nessuno e di cui nessun altro può essere considerato colpevole, o meritevole, al posto nostro. L’unico vincolo che ci ha imposto il governo Draghi è un vincolo interno, che potremmo più semplicemente chiamare istinto di sopravvivenza.