Centrosinistra di governo permanente. Come dare un senso al più lungo catenaccio della storia

Categoria: Italia

Il Pd non può continuare a illudersi di decidere per sempre i vertici delle istituzioni e del governo, pur essendo, da tempo, minoranza nel paese. Ma può ancora fare il possibile per metterli al sicuro

Francesco Cundari, 18.11.2021. linkiesta.it lettura4’

Il centrosinistra ha vinto le elezioni la prima volta nel 1996, grazie al fatto che la Lega e il resto del centrodestra si erano divisi (errore che purtroppo non avrebbero più ripetuto in seguito), la seconda nel 2006, per appena 24 mila voti di differenza (alla Camera, perché al Senato ne prese parecchi di meno), la terza nel 2013, con un risultato talmente risicato che lo stesso Pier Luigi Bersani lo definì onestamente una non-vittoria. E questo è tutto, perlomeno da quando, tra 1992 e 1993, è nata la cosiddetta Seconda Repubblica (cioè da sempre, almeno per quanto riguarda la sinistra proveniente dal Partito comunista italiano, che al governo non ci andò mai, come noto, neanche prima).

 

A fronte di questo non brillante palmarès, dal 1992 a oggi non c’è stato un solo Capo dello Stato che non provenisse dall’area del centrosinistra. E sono dieci anni esatti, con l’unica eccezione della breve parentesi gialloverde tra 2018 e 2019, che il Partito democratico siede stabilmente al tavolo della maggioranza (avendo cominciato nel 2011, con Mario Monti a Palazzo Chigi), o direttamente al governo, dove si trova ininterrottamente dal 2013, sempre con la breve eccezione di cui sopra (per gli amanti delle statistiche, lo stesso si può dire della permanenza di Dario Franceschini al ministero della Cultura).

Comunque se ne giudichino motivazioni e risultati, è difficile non rimanere colpiti da questa singolarissima capacità di ottenere molto con pochissimo, almeno dal punto di vista del rapporto tra risultati elettorali e incarichi istituzionali. Lo si potrebbe definire forse il più grande catenaccio della storia. In pratica, sono almeno dieci anni – ma volendo, come si è visto, si potrebbe dire anche molto di più – che il centrosinistra gioca sistematicamente in inferiorità numerica, praticamente senza mai uscire dalla propria area di rigore, facendosi prendere a pallonate da ogni genere di avversario, in ogni partita, per 89 minuti filati, eppure riuscendo sempre, non si sa bene come, a portarsi a casa tutti i trofei più ambiti.

Considerato da un altro punto di vista – passando cioè dal rapporto tra voti presi e incarichi ottenuti al rapporto tra incarichi ottenuti e obiettivi realizzati – il bilancio potrebbe apparire meno entusiasmante, ed è legittimo ritenere che qui si nasconda una delle ragioni per cui i voti, alla fine, non abbondano mai.

Eppure questa stessa mancanza d’iniziativa politica, conseguenza se volete anche di una suprema capacità di adattamento, può essere considerata non solo come una qualità, ma come una qualità indispensabile in tali circostanze. In altre parole, come la capacità di fare il massimo possibile con il poco o niente a disposizione. Insomma, una grandiosa, infaticabile e per certi versi persino temeraria opera di riduzione del danno.

Si tratta ovviamente di un’interpretazione molto benevola, ma prendiamola pure per buona. Il fatto è che un simile equilibrio, com’è di tutta evidenza, non può durare per sempre. Anzi, è già un miracolo che sia durato tanto. Dunque, la domanda che i dirigenti del centrosinistra, cioè anzitutto i dirigenti del Pd, dovrebbero porsi quanto prima è come intendano concludere questa loro lunga e nobile missione.

Il fatto è che il tempo stringe: se hanno intenzione di mettere al riparo la Repubblica dalle tentazioni orbaniane e populiste, ebbene, sarebbe ora che si muovessero, e cominciassero a uscire allo scoperto. In proposito, se non lo hanno già fatto, consiglierei loro di leggere con attenzione l’intervista di Marine Le Pen al Corriere della Sera di ieri sul nuovo gruppo in costruzione in Europa con la Lega e con lo stesso primo ministro ungherese cacciato dal Ppe, e sull’idea della candidata alle presidenziali francesi di sottoporre a referendum il primato della legislazione nazionale sui trattati (dunque la fine dell’Unione europea). E stiamo parlando di una delle principali alleate in Europa di Matteo Salvini.

L’impressione è che molti sottovalutino l’effetto combinato del taglio dei parlamentari e di una legge elettorale come l’attuale (o di qualunque altro pasticcio pseudo-maggioritario si possano inventare, pur di non mettere in sicurezza equilibri e divisione dei poteri con una normale legge proporzionale).

A sinistra più d’uno sembra accarezzare la vecchia idea di fomentare lo scontro pseudo-bipolare per lucrare una rendita di posizione, e pazienza se il prezzo, stavolta, consisterebbe nel consegnare il Quirinale (forse) e Palazzo Chigi (sicuramente) alla destra più pericolosa di sempre, con una maggioranza praticamente senza più contrappesi, in un sistema del tutto squilibrato e a fortissimo rischio di torsione populista.

Questa però sarebbe proprio la più indegna delle conclusioni, per la storia di tanti dirigenti che pure qualcosa di buono per l’Italia hanno combinato in questi anni, e che così non lascerebbero altra eredità che un’infinita scia di risentimenti, accuse e rancori, per una volta non manifestamente infondati.