Harakiri strategico. Per astuzia o per necessità, Letta ha riportato il Pd sulla linea bipopulista

Draghi al Quirinale, elezioni anticipate e scontro bipolare-maggioritario tra giallorossi e neroverdi somigliano molto ai diversi passaggi di un’unica strategia, che non promette niente di buono

Francesco Cundari, 21.1.2022 linkiesta.it lett3’

In attesa di capire se a destra i pieni poteri torneranno ancora una volta dal Papeete a Papi, a sinistra le cronache degli ultimi giorni permettono di cogliere con una certa nettezza l’affermazione di Enrico Letta come leader di un partito e di una coalizione di cui ha ridisegnato i contorni a proprio piacimento. Utilizzando allo scopo anche e forse soprattutto l’occasione della partita per il Quirinale, in cui si è definitivamente certificato il fatto che il centrosinistra oggi è una coalizione che comprende, oltre al Pd, soltanto altri due partiti, M5s e Articolo Uno, e in cui le decisioni più importanti si prendono in vertici tra i rispettivi leader (o presunti tali).

Si tratta di una linea piuttosto diversa da quella disegnata nell’abile discorso con cui Letta si era presentato all’assemblea nazionale del Pd, dove aveva fatto un’importante distinzione tra centrosinistra e Movimento 5 stelle (motivo per cui anche da queste pagine lo avevamo applaudito).

Del resto, non è neanche l’unico punto su cui il segretario, senza darlo troppo a vedere, ha portato Pd e centrosinistra (o quel che è) dove voleva lui: gli altri due punti, ovviamente collegati al primo, sono infatti la legge elettorale (con il no al proporzionale, su cui pure i democratici si erano solennemente impegnati) e le elezioni anticipate (o se preferite, che è una formula più elegante per dire la stessa cosa, l’elezione di Mario Draghi a presidente della Repubblica).

Si può discutere all’infinito di quanto una simile svolta sia stata imposta dal segretario o dalle circostanze, se la ridefinizione del perimetro del centrosinistra sia causa o conseguenza del definitivo smarcamento di Matteo Renzi (e resterebbe comunque da capire perché non tentare almeno di tenere agganciato Carlo Calenda), ma alla fine è un po’ come la questione dell’uovo e della gallina. Insomma, chissenefrega.

Sta di fatto che avevamo lasciato il Pd, fino a pochi giorni fa, attestato sulla posizione secondo cui la priorità era garantire la continuità di governo, e ormai tutti i quotidiani raccontano di come sia stato invece proprio Letta, nell’ultimo vertice di coalizione, a premere su Conte per convincerlo dell’opportunità di eleggere Draghi presidente della Repubblica.

Ricordavamo l’intero gruppo dirigente del Pd spergiurare che in cambio del loro sofferto sì al taglio dei parlamentari, per evitare di mettere a rischio niente di meno che la democrazia, avrebbero preteso una legge elettorale proporzionale, e ormai mille volte abbiamo sentito Letta dire che ci vuole invece il maggioritario, pure dalla festa di Fratelli d’Italia, tra gli applausi della platea (e daje torto, a loro).

Chi abbia cominciato prima, di chi siano i meriti o le colpe, se ci sia dietro un disegno o solo una lunga sfilza di riflessi pavloviani ha poca importanza. Quello che conta è che oggi questo è il centrosinistra, e che la prova decisiva su cui si misurerà è anche la più difficile, in particolare per il Partito democratico.

Sin da quando è nato, infatti, il Pd ha mostrato una particolare sensibilità all’elezione del presidente della Repubblica, il cui esito ha sempre avuto un immediato riflesso sui suoi equilibri. È stato così nel 2013, con la sua clamorosa spaccatura prima sul nome di Franco Marini e poi su quello di Romano Prodi, con le conseguenti dimissioni del segretario Pier Luigi Bersani, ma anche la promozione del suo vice, lo stesso Letta, a presidente del Consiglio. Ed è stato così pure nel 2015, perché fu proprio sulla scelta di Sergio Mattarella per il Quirinale che si consumò la rottura del famigerato patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, con le inevitabili conseguenze sul percorso delle riforme istituzionali e il successivo referendum.

Naturalmente, se tutto questo riguardasse solo gli equilibri interni del Pd o il perimetro del centrosinistra, la vicenda non sarebbe neanche così interessante. Il problema è che di mezzo ci sono la pandemia e il Piano nazionale di ripresa e resilienza: all’indomani di una campagna elettorale di tipo bipolare-maggioritario, o per meglio dire bipopulista, con Draghi al Quirinale (o peggio, bruciato nel tentativo di arrivarci), non è facile immaginare un governo, una maggioranza e una leadership capaci di portarci fuori dai guai. Guai che non sono mica spariti, nel frattempo. Anche se, in vista del Quirinale, in tanti hanno deciso che era meglio far finta di sì.

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