La frattura tra ragione e realtà 2 / Il “comunismo eterno” e la (impossibile?) riforma della sinistra

Categoria: Italia

Al contrario, «la sinistra moderna post 1989 ripudia senza ambiguità il comunismo, accetta il capitalismo e l’economia di mercato, crede nei benefici della globalizzazione, è cosmopolita

15.11. 2022 - di Paolo Musso fondazionehume,it lett27’

Nel mio ultimo articolo avevo cercato di dimostrare come Putin sia rimasto sostanzialmente un comunista sovietico degli anni Settanta. Ma allora perché la sinistra si ostina a considerarlo un “fascista”? La mia risposta è che essa «non ha mai fatto realmente i conti con il comunismo», il che «ha avuto e ha tuttora conseguenze profonde, non solo quanto al giudizio su Putin, ma anche quanto alla questione di fondo della crisi di identità della sinistra e del suo possibile (o impossibile) rinnovamento». Proprio quest’ultimo aspetto viene discusso nel presente articolo, suggerendo, in base all’analisi fatta da Luca Ricolfi nel suo ultimo libro “La mutazione”, che una forza di sinistra davvero adeguata ai tempi dovrebbe essere comunitaria ma non comunista, cioè l’esatto opposto di ciò che è attualmente.

Confesso che da molto tempo avevo in mente di scrivere questo articolo, ma poi c’erano sempre questioni più urgenti e così ogni volta rimandavo. La spinta decisiva me l’hanno data due recenti avvenimenti: anzitutto il risultato delle ultime elezioni, con la vittoria, per più di un aspetto storica, comunque la si voglia valutare, della destra italiana guidata da Giorgia Meloni; e poi l’illuminante analisi della vicenda che a tale risultato ha condotto, fatta da Luca Ricolfi nel suo ultimo libro, La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, uscito da pochi giorni, che mi ha molto aiutato a migliorare la qualità delle mie argomentazioni (delle quali comunque io solo sono responsabile).

Partiamo proprio da qui. Come dice giustamente Ricolfi, oggi «esistono due sinistre: una liberal, illuminista, cosmopolita e pro mercato, l’altra anticapitalista, internazionalista e non priva di nostalgie romantiche per “il mondo fino a ieri”» (Ricolfi, La mutazione, p. 27).

La prima, la “vecchia” sinistra, molto minoritaria a livello politico, ma assai meglio rappresentata tra gli intellettuali, è molto critica verso l’attuale assetto di potere nel mondo e, in particolare, vero la globalizzazione e si richiama esplicitamente a Marx, forse addirittura più di quanto facessero i vecchi partiti comunisti occidentali.

Al contrario, «la sinistra moderna post 1989 ripudia senza ambiguità il comunismo, accetta il capitalismo e l’economia di mercato, crede nei benefici della globalizzazione, è cosmopolita, combatte le discriminazioni, difende gli immigrati, è impegnata nelle grandi “battaglie di civiltà”: unioni civili, eutanasia, liberalizzazione delle droghe, diritti LGBT», diventando di fatto, come già profeticamente previsto da Augusto Del Noce quarant’anni fa, «una sorta di partito radicale di massa, dimentico della questione sociale e ossessionato dalla tutela di alcune specifiche minoranze» (Ricolfi, La mutazione, pp. 17 e 189)

Concordo in tutto, salvo che su quel “ripudio senza ambiguità”. Si tratta però di un disaccordo più apparente che reale, dato che poco più avanti lo stesso Ricolfi scrive: «Alle volte mi viene da pensare che, a dispetto di ogni riconversione, revisione, autoriforma e sforzo di modernizzazione, gli eredi del Partito Comunista siano rimasti profondamente e irrimediabilmente leninisti nell’anima, prigionieri dell’idea che il popolo non sia in grado di prendere coscienza dei propri interessi da sé, e che per far maturare tale coscienza siano indispensabili le “avanguardie”, guide politiche e spirituali delle masse incolte» (Ricolfi, La mutazione, p. 56).

Quel che tenterò qui di documentare è che tale sospetto è più che giustificato e che le cose stanno proprio così: nel profondo della sua anima anche la sinistra liberal, rappresentata in Italia dal PD, è rimasta comunista. Ciò dipende dal fatto che la sinistra tutta, sia “vecchia” che “nuova”, non ha mai dato un giudizio chiaro sulla natura totalitaria del comunismo in quanto tale (e non solo su questa o quella sua concreta realizzazione) e, di conseguenza, crede ancora in molte idee che da esso derivano e che di esso conservano la suddetta natura totalitaria, rendendo così molto difficile una sua autentica riforma.

Con questo, naturalmente, non voglio dire che la sinistra creda ancora al comunismo nel suo insieme: la rivoluzione armata e la dittatura del proletariato erano state messe in soffitta ben prima della caduta del Muro e oggi anche quel che resta della “vecchia” sinistra marxista «ha perso del tutto l’antica fiducia nell’avvento del comunismo», per cui «le devastazioni del capitalismo» non sono più viste «come tappe indispensabili di una traiettoria segnata dalle leggi inesorabili dei movimento del capitale», bensì «solo come segno dello strapotere dei giganti dell’economia, che travolgono e sottomettono ogni cosa, preparando la strada all’incubo di un governo mondiale, che tutto sorveglia e tutto omologa nel segno del consumismo e del superamento di ogni limite morale» (cfr. Ricolfi, La mutazione, pp. 62-63).

Proprio per questo, paradossalmente, questa sinistra “comunitaria” (come la chiama Ricolfi sulla scia di Marcello Veneziani) sperimenta a volte curiose convergenze con la destra, anch’essa critica verso la globalizzazione e l’individualismo e attenta alle identità e agli aspetti comunitari. Lo si è visto in modo clamoroso in occasione delle ultime elezioni, dove a demonizzare al di là di ogni ragionevolezza (e spesso anche di ogni decenza) Giorgia Meloni e la sua destra vittoriosa è stata la sinistra “moderna” e (teoricamente) “moderata”. Al contrario, quella “vecchia” e (teoricamente) “estremista” si è comportata in modo molto più rispettoso e, pur nel quadro di una sostanziale opposizione (ci mancherebbe!), ha perfino mostrato interesse per alcuni aspetti del suo programma.

Tuttavia, ciò premesso, bisogna riconoscere che è difficilissimo trovare un qualsiasi intellettuale di sinistra (non solo in Italia, ma in qualsiasi paese europeo) che sia disposto ad ammettere, “senza se e senza ma”, che il comunismo è un’ideologia intrinsecamente totalitaria e quindi irrimediabilmente violenta e oppressiva, al pari del fascismo. Anzi, molti lo considerano ancor oggi un faro di democrazia e di civiltà, «per l’antico riflesso condizionato, che per tanto tempo ha portato la cultura di sinistra a giudicare il comunismo per i suoi (nobili) fini, anziché per gli (ignobili) mezzi con cui ha tentato di imporli» (Ricolfi, La mutazione, p. 143).

Il massimo che si è sentito dire al proposito dai leader della sinistra (e anche questo solo in momenti molto speciali, quando qualche spiegazione non si poteva proprio evitare di darla, per esempio in occasione del cambio del nome del PCI in PDS) è che il comunismo sarebbe stato «superato dalla storia», come disse Achille Occhetto per giustificare, appunto, la svolta della Bolognina. Tale affermazione, però, non solo non costituisce una vera condanna, ma è essa stessa in perfetto stile comunista, giacché per il comunismo, così come per l’idealismo hegeliano, di cui il marxismo è figlio legittimo, non esistono giudizi morali, ma soltanto storici, o, più esattamente, storicisti.

Per Hegel come per Marx esiste infatti una razionalità intrinseca alla Storia (per il primo lo Spirito, per il secondo l’economia) che ne guida lo sviluppo in modo deterministico attraverso un processo “dialettico” di opposti che devono essere superati in una “sintesi” superiore. Per dirla con la celeberrima espressione di Hegel: «Ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale» (Lineamenti di filosofia del diritto, 1821). Di conseguenza, ogni tappa di tale processo è inevitabile e quindi ultimamente positiva per definizione, anche quando ci può apparire il contrario, dato che è un passo necessario verso il futuro, che è per definizione migliore. L’unico comportamento davvero censurabile (e peraltro destinato inesorabilmente al fallimento) è quindi opporsi a tale processo.

Benché oggi nessuno sostenga più apertamente questa tesi, essa tuttavia sopravvive (implicitamente ma realmente) nel concetto stesso di “progressismo”, che identifica il “progresso” col Bene per definizione e fa sì che chi lo sostiene si senta, sempre per definizione, “dalla parte giusta della Storia” (concetto ancora una volta hegeliano e marxista).

Esattamente alla stessa conclusione giunge anche Ricolfi: «Dovessi riassumerla in una formula, direi che le cose sono andate come sono andate perché sinistra e destra hanno un differente rapporto con il “progresso” […]. Per la cultura di sinistra la freccia del tempo storico punta sempre nella direzione giusta: ieri perché il capitalismo era una tappa necessaria sul cammino che avrebbe portato al socialismo, oggi perché l’evoluzione culturale e l’evoluzione del diritto possono incanalare il capitalismo sui giusti binari, specie se a guidare la corsa sono i progressisti», mentre «la destra, a differenza della sinistra, percepisce il lato oscuro del progresso, o meglio, di quel che i progressisti vedono come progresso»(Ricolfi, La mutazione, pp. 195-200).

È importante capire che questo sentimento di superiorità («il complesso dei migliori», come lo chiama Ricolfi) non è frutto di semplice arroganza, ma nasce da una precisa posizione filosofica, che sta al cuore della formulazione originaria della teoria marxista della Storia. E questo si tira dietro tutta una serie di conseguenze, che ingombrano e intossicano tuttora la mente degli esponenti della sinistra, impedendo loro di cambiare davvero e causando quel «vuoto di idee» e quel «non vivere nella realtà» di cui parlava giustamente Luca Ricolfi in una sua intervista immediatamente successiva alle elezioni vinte da Giorgia Meloni (https://www.fondazionehume.it/politica/oggi-la-sinistra-dice-cose-di-destra/).

La prima di tali idee sbagliate è la demonizzazione dell’avversario, che in quest’ottica è inevitabile. Se infatti i progressisti stanno per definizione dalla parte giusta della Storia, chiunque non stia con loro sta, sempre per definizione, dalla parte sbagliata e pertanto non può mai essere “semplicemente” un avversario da battere, bensì sempre e soltanto un nemico da abbattere.

Strettamente collegato a tale atteggiamento teorico è la qualificazione di chiunque si opponga al progresso come “fascista”, il che di per sé non ha una giustificazione teorica, ma storica. I partiti comunisti europei e l’Unione Sovietica, infatti, fanno parte dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale, dove il grande sconfitto è stato il nazifascismo. E poiché, come tutti sappiamo, la storia la scrivono i vincitori, quest’ultimo è stato identificato non solo come il principale, ma come l’unico responsabile di essa e dei suoi orrori.

Ciò ha generato in tutto l’Occidente un’asimmetria di giudizio rispetto al comunismo, che è stato da allora giudicato sostanzialmente “accettabile” anche dai suoi avversari, nonostante le gravi responsabilità dell’Unione Sovietica nel favorire la guerra con lo scellerato patto Ribbentrop-Molotov e la conseguente spartizione della Polonia e nonostante che essa e i partiti comunisti suoi alleati avessero abbattuto le dittature nazifasciste solo per instaurare delle dittature comuniste.

Tuttavia, questa motivazione storica è stata col tempo trasformata in una affermazione teorica, identificando il progressismo con l’antifascismo anche in linea di principio. Ciò infatti implica che chiunque si opponga al progressismo diventi per definizione un “anti-antifascista” e quindi un fascista, secondo un meccanismo logico tanto scorretto quanto efficace che era stato evidenziato già negli anni Ottanta da Augusto Del Noce.

Questo trucco negli ultimi tempi è stato opportunamente “aggiornato”, in modo da assecondare l’evoluzione della “nuova” sinistra, che, essendo passata dalla difesa delle classi povere a quella degli immigrati e delle minoranze LGBT, identifica ora il progressista come antirazzista (inteso in senso lato, includendovi ogni forma di discriminazione, anche se non c’entra nulla con la razza) e, di conseguenza, l’anti-progressista come anti-antirazzista e quindi razzista (cfr. Ricolfi, La mutazione, pp. 96-97). Tuttavia, la formulazione originaria era sopravvissuta sottotraccia, come ha dimostrato il risultato delle ultime elezioni, che “ha svelato i pensieri di molti cuori”.

Infatti, di fronte al primo governo della storia italiana guidato dalla destra, erede, sia pure nella discontinuità, del vecchio MSI, la sinistra ha abbandonato anche le ultime cautele verbali che aveva mantenuto perfino con Berlusconi, dicendo finalmente fino in fondo ciò che davvero pensava e verosimilmente aveva sempre pensato: chiunque si opponga alla sinistra è per definizione un “fascista”.

Questo argomento puramente “logico” viene poi completato e integrato dalla teoria del cosiddetto “fascismo eterno”, formulata da Umberto Eco nel 1995 e opportunamente riesumata anch’essa nelle ultime settimane. Essa bolla infatti come “fasciste per natura” determinate idee, rendendole così indifendibili da qualunque movimento politico, indipendentemente dal suo rapporto con il fascismo storico.

Un esempio emblematico è quello del motto “Dio, patria, famiglia”. Non c’è dubbio che esso sia stato spesso strumentalizzato dai regimi fascisti, ma ciò non significa che chiunque creda in tali valori debba per ciò stesso essere considerato fascista. Tra l’altro, ciò porterebbe ad espellere dal consesso democratico tutti i credenti di qualsiasi religione, a meno che accettino di relegare completamente nella dimensione privata la propria identità. Dovrebbe essere evidente a qualunque sincero democratico quanto ciò sia non solo inaccettabile, ma anche pericoloso. Eppure, in queste settimane lo abbiamo sentito ripetere in continuazione, perfino durante il dibattito sulla fiducia alla Camera, in cui Giuseppe Conte ha esplicitamente definito questi valori «reazionari».

Questo atteggiamento è poi ulteriormente esacerbato dalla convinzione che chi si oppone al giusto corso della Storia è destinato fatalmente alla sconfitta, sicché, quando ciò non accade, si scatenano regolarmente reazioni di rabbiosa incredulità, tanto più pericolosa in quanto a suo modo sincera. Questo meccanismo psicologico lo abbiamo visto all’opera in modo particolarmente chiaro proprio in occasione delle ultime elezioni. Infatti, la vittoria della destra meloniana, per quanto ampiamente annunciata, per molti esponenti della sinistra resta tuttora qualcosa di inconcepibile, il che li ha spinti a una violenza verbale mai vista prima e francamente preoccupante.

In queste settimane, infatti, i progressisti hanno bollato come “fascista” praticamente qualsiasi espressione uscisse di bocca agli esponenti della maggioranza, con esiti in alcuni casi addirittura grotteschi. Solo per fare un esempio, sempre nel dibattito sulla fiducia Enrico Letta è arrivato a sostenere che espressioni come “merito”, “natalità”, “sovranità alimentare” e perfino “made in Italy”, aggiunte dal governo al nome di alcuni ministeri, «ricordano il Ventennio». Ci sarebbe solo da ridere, se non fosse per la carica di vero e proprio odio con cui queste assurdità sono state pronunciate.

E non si tratta soltanto di parole, perché tale demonizzazione dell’avversario ha già prodotto in passato gravi discriminazioni (basti pensare a come sia difficile trovare spazio nell’establishment culturale occidentale per chiunque non condivida le “parole d’ordine” della sinistra) e talvolta addirittura vere e proprie persecuzioni. Per non parlare, poi, del frequente uso politico della giustizia, che rischiamo di vedere presto tornare alla ribalta.

Ma se di questi atteggiamenti almeno si discute e vi sono perfino alcuni intellettuali di sinistra (per quanto ancora troppo pochi) che li condannano, ci sono altre sopravvivenze dell’originaria matrice comunista, meno evidenti, ma non meno reali e soprattutto non meno gravi, che invece non vengono mai messe in discussione (per analogia potremmo chiamarle “comunismo eterno”, anche se in questo caso c’è invece un preciso rapporto di continuità con il comunismo storico).

La sinistra liberal vive infatti una contraddizione di fondo, perché continua, nonostante tutto, ad «autopercepirsi come paladina degli ultimi», nascondendosi dietro la foglia di fico del sostegno «agli immigrati, e alle battaglie a difesa delle minoranze LGBT». Ciò le consente per la maggior parte del tempo di «continuare a eludere la domanda fondamentale: perché i ceti popolari le hanno voltato le spalle, e preferiscono votare per i partiti di destra?» (Ricolfi, La mutazione, p. 55). Tale domanda, tuttavia, potrà essere rimossa quanto si vuole, ma continuerà a sopravvivere sottotraccia, turbando i sonni dei suoi militanti, finché il PD continuerà a proclamarsi “di sinistra”.

Così, ogniqualvolta la sinistra liberal sente il bisogno di dire qualcosa davvero di sinistra, la sua cattiva coscienza la spinge a tornare ai suoi temi tradizionali. Quello che dovrebbe fare, invece, sarebbe tornare al suo elettorato tradizionale, i cui problemi sono in gran parte nuovi e richiedono quindi soluzioni anch’esse nuove. In tal modo, la sinistra liberal finisce per usare la crisi come una scusa per tornare (provvisoriamente) indietro, anziché come un’opportunità per andare (finalmente) avanti. E così, anziché chiarirsi le idee, finisce per confondersele sempre più.

In altre parole, quelli che da sinistra imputano (giustamente) le sconfitte elettorali al fatto che il PD, nei suoi tentativi di ammodernamento, è diventato troppo poco di sinistra, spesso, probabilmente senza rendersene neanche pienamente conto, intendono dire (erroneamente) che è diventato troppo poco comunista. Invece il vero problema è che lo è ancora troppo.

Ciò si vede innanzitutto dal tema delle alleanze. Fin dalla sua fondazione il PDS-DS-PD ha continuamente oscillato fra il tentativo di rompere definitivamente con i tradizionali alleati dell’estrema sinistra quando le cose vanno bene e la tentazione di tornare ad allearsi con essi alla prima batosta subita. Ma se l’alleanza con la sinistra comunista è ritenuta accettabile, allora ciò significa che in fondo anche le sue idee sono ritenute accettabili (o quantomeno “non inaccettabili”) anche per il nuovo soggetto politico che si vorrebbe costruire, col che non si capisce più in cosa dovrebbe consistere la sua novità.

E lo stesso vale a livello internazionale. Abbiamo già visto come per combattere Putin la sinistra si senta costretta a dipingerlo come un fascista anziché come un epigono del comunismo sovietico, ma non è un caso isolato. Solo per fare un esempio, era il 2009 e il segretario del PD non era Togliatti, ma Franceschini, quando il dittatore comunista Hugo Chávez, che ha ridotto alla fame uno dei paesi potenzialmente più ricchi del mondo come il Venezuela, veniva accolto trionfalmente alla Mostra del Cinema di Venezia da tutto l’establishment progressista. Altro esempio: il principale referente del regime comunista cinese per il suo progetto di colonizzazione dell’Europa attraverso la Nuova Via della Seta è da sempre Romano Prodi. E, per stare all’attualità, vogliamo parlare di Lula?

D’accordo, rispetto a Bolsonaro era il male minore, soprattutto per l’Amazzonia, che oggi ha un valore speciale per tutto il mondo. Ma da qui a beatificarlo ce ne corre, visto che la sua scarcerazione si deve a un cavillo formale. La realtà dei fatti è che Lula è stato uno dei principali protagonisti del più grande fenomeno di corruzione della storia umana, lo scandalo Odebrecht, che per anni ha distribuito tangenti per quasi un miliardo di dollari in tutta l’America Latina. Lula aveva addirittura la propria firma sul conto segreto di Marcelo Odebrecht, per cui pagava le tangenti personalmente, senza neanche doverglielo chiedere. Ma niente: Lula è di sinistra, quindi Lula è innocente, anzi, è un santo. È chiaro che finché si (s)ragiona così non si va da nessuna parte.

Invece, se si vuole davvero costruire una sinistra adeguata ai nostri tempi occorre innanzitutto riconoscere che essere di sinistra non significa necessariamente essere comunisti, anzi, che significa necessariamente non esserlo, perché il comunismo ha dimostrato di non essere in grado di risolvere realmente i problemi delle classi disagiate. Di conseguenza, bisogna abbandonare una volta per tutte non solo il comunismo nel suo insieme, ma anche tutti quei pregiudizi che dal comunismo derivano e che scattano implacabilmente, come dei veri e propri riflessi condizionati, ogni volta che si affronta il problema di una vera riforma della sinistra, finendo per renderla di fatto impossibile.

Uno di tali pregiudizi l’ho già accennato prima ed è il laicismo settario, che è cosa ben diversa da una sana laicità e porta gran parte della sinistra a ritenere pregiudizialmente inaccettabile qualsiasi proposta politica che si ispiri a valori religiosi e, in particolare, cattolici, indipendentemente dal contenuto. Un esempio molto attuale è la polemica sull’aborto: una cosa, infatti, è difendere la 194, altra cosa, ben diversa, è bollare come “fascista” chiunque voglia valorizzare maggiormente i Centri di Aiuto alla Vita, previsti da una norma (in gran parte mai applicata) della stessa 194.

Un altro pregiudizio è la tendenza a ragionare in termini di “classi” astratte. Ciò può sembrare strano, perché molti rimproverano alla sinistra proprio di avere abbandonato la lotta di classe, il che almeno in parte è vero (anche perché almeno in parte la lotta di classe non esiste più). Ma ciò che di tale idea è sopravvissuto è la tendenza a pensare che i diritti delle persone siano determinati solo dal gruppo sociale a cui appartengono e non anche dalle loro convinzioni e dalle loro azioni.

Così, per esempio, esisterebbero i diritti “delle donne”, quelli “degli omosessuali”, quelli “dei lavoratori”, quelli “degli studenti”, quelli “degli immigrati” e così via, che tutti gli appartenenti ai gruppi suddetti devono condividere per definizione. Per determinare quali siano i suddetti diritti si ricorre infatti a un altro concetto tipicamente marxista (anche se la formulazione originaria è giacobina): quello, ricordato anche da Ricolfi, delle “avanguardie illuminate” che rappresentano la “coscienza di classe”, nel senso che la loro opinione è per definizione quella di tutti gli appartenenti al gruppo sociale in questione, compresi quelli che non la condividono – o meglio, che “non sanno ancora” di condividerla.

Di fatto, però, le cose non stanno così: per quanto gli esponenti della sinistra trovino difficile crederlo, ci sono donne contrarie all’aborto, omosessuali che non rivendicano il diritto di adottare, lavoratori a cui non piace l’assistenzialismo, studenti che vorrebbero una scuola più selettiva, immigrati che non vogliono l’accoglienza indiscriminata, ecc. Ma poiché essi non dovrebbero pensarla così, il risultato è che tutti costoro sono bollati non solo come “fascisti”, ma addirittura come non realmente appartenenti alle proprie categorie, cioè, di fatto, come delle non-persone.

La cosa è particolarmente grave nel caso delle donne, che se non aderiscono ai valori progressisti sono accusate di essere nemiche delle donne, come se non fossero donne esse stesse. Si è arrivati all’assurdo di accusare di discriminazione e, ovviamente, di “fascismo” perfino figure storiche del femminismo e della lotta per i diritti LGBT come Kathleen Stock in Inghilterra e Marina Terragni in Italia (cfr. Luca Ricolfi, https://www.fondazionehume.it/societa/il-caso-stock-e-la-nostra-liberta/; si veda anche la tavola rotonda con Ricolfi e la stessa Terragni da me organizzata nella mia Università dell’Insubria: https://www.youtube.com/watch?v=XTWboWfh9wA&t=14s).

Un alto esempio inquietante si è visto durante il governo Conte, con le assurde discriminazioni, concettuali prima ancora che economiche, verso i lavoratori autonomi, che non solo si sono visti riconoscere aiuti ridicoli, ma addirittura non erano nemmeno inclusi nella categoria dei lavoratori (nei DPCM contiani c’erano «i lavoratori» e poi «gli autonomi»). Per la sinistra, infatti, non solo gli autonomi non sono ritenuti “veri” lavoratori, ma spesso vengono considerati ricchi per definizione (anche quando non lo sono) e perciò evasori fiscali, secondo il principio per cui i poveri sono di per sé “buoni”, mente i ricchi sono di per sé “cattivi” (tranne, ovviamente, quando sono di sinistra).

Se qualcuno pensa che esageri, faccio presente che quando Giorgia Meloni nel suo discorso per la fiducia alla Camera ha ricordato che il suo partito non ha mai accettato questa discriminazione, concludendo che «per noi un lavoratore è un lavoratore», Lucia Annunziata ha definito questa affermazione «peronista» (Discorso peronista che divide il paese, editoriale di La Stampa del 26/10/2022), che nel gergo della sinistra equivale sostanzialmente a “fascista” (anche se Perón fascista non lo è mai stato e semmai aveva tendenze di sinistra, ma che importa?).

Ma il caso più clamoroso è quello della stessa Meloni, che, essendo rea di non sostenere i valori “delle donne” (cioè i valori che secondo i progressisti tutte le donne dovrebbero condividere), viene trattata di fatto come una non-donna. Se così non fosse, infatti, la sua nomina a premier sarebbe stata celebrata da tutti i media progressisti a lettere cubitali, essendo stata la prima donna nella storia italiana a riuscirci, battendo paesi come USA, Francia e Spagna che vengono regolarmente considerati più “evoluti” del nostro. Invece, niente: solo qualche breve accenno nell’occhiello o nel catenaccio, zero nei titoli. Addirittura, con sovrano sprezzo del ridicolo, qualcuno è arrivato a dire che questo storico risultato è meno importante della sua scelta di farsi chiamare “il” presidente, che sarebbe “maschilista”, “patriarcale” e – naturalmente – “fascista”.

E questo atteggiamento non vale solo per le singole classi sociali, ma anche per la società nel suo insieme. In tal modo, si stabiliscono, sempre ad opera delle avanguardie illuminate di cui sopra, determinati valori e comportamenti a cui tutti devono aderire, sotto pena, manco a dirlo, di essere altrimenti dichiarati “fascisti” o “razzisti”.

È così che è nato il politically correct, su cui non dirò nulla, perché ha già detto tutto Ricolfi nel secondo capitolo del suo libro, nonché nel Manifesto del libero pensiero, scritto insieme a Paola Mastrocola, a cui dunque rimando. Ma così è nato anche il pandemically correct (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/politica/il-virus-dellautoritarismo/), cioè l’insieme di tutti quei comportamenti suppostamente “virtuosi” (anche se in gran parte scientificamente infondati e spesso disastrosi) impostici dal governo giallorosso, la cui acritica accettazione è ancor oggi per la sinistra, contro ogni evidenza e ragionevolezza, un preciso dovere di ogni cittadino “democratico”.

Il prossimo passo sarà la nascita dell’ecologically correct, che in realtà in gran parte già esiste, anche se non è (ancora) arrivato al punto di produrre vere discriminazioni ai danni di chi lo rifiuta. Ma ci arriverà. E quando accadrà, sarà ancor più pericoloso degli altri due. Per questo ne parlerò diffusamente nei prossimi articoli.

Altro pregiudizio particolarmente deleterio è lo statalismo. Naturalmente non sto qui criticando qualsiasi forma di statalismo: possono esserci, e ci sono state di fatto nella storia, politiche stataliste che hanno dato buoni risultati (per esempio quelle keynesiane), anche se personalmente sono convinto che possano funzionare solo in momenti particolari, mentre a gioco lungo fanno sempre più male che bene. Ma quello che fa sempre più male che bene (anzi, fa soltanto male) è lo statalismo ideologico, per il quale tutto ciò che viene fatto dallo Stato avrebbe per definizione una superiorità morale, il che lo porta inevitabilmente ad assumere caratteri tendenzialmente totalitari.

Anche questo lo abbiamo visto durante il Covid, con la guerra del governo giallorosso alla Sanità regionale, soprattutto a quella lombarda (da sempre nel mirino della sinistra perché dimostra l’efficacia del principio antistatalista della sussidiarietà), ma anche a quella veneta, “rea” di aver disubbidito alle scellerate indicazioni della OMS, nonostante in questo modo Zaia e Crisanti avessero salvato migliaia di vite.

Ancor più chiaramente lo si è visto col reddito di cittadinanza, che è stato criticato per molti motivi, anche giusti, ma mai per quello più importante. Nella sua versione originaria, infatti, poteva perfino essere una buona idea (e lo dico io che i 5 Stelle li detesto), dato che non era puramente assistenzialistico, ma prevedeva la creazione di una rete capace di mettere in comunicazione la domanda e l’offerta di lavoro, unita all’obbligo per i beneficiari di seguire corsi di formazione e di accettare le proposte che avrebbero ricevuto, pena la perdita del reddito stesso. In Olanda esiste un sistema analogo che funziona molto bene. Perché allora da noi ha fallito?

La causa fondamentale è stata l’incompetenza di chi doveva gestirlo, i cosiddetti “navigators”. Ma ciò è accaduto perché in Italia le uniche agenzie di collocamento che funzionano sono quelle private, per le quali però i 5 Stelle hanno sempre nutrito un odio ideologico profondissimo (chiaramente derivato da quello della sinistra perché motivato con gli stessi argomenti, anche se il M5S all’inizio non era né di destra né di sinistra). Così, anziché stabilire con esse una collaborazione basata su opportune convenzioni, integrandole in un sistema misto pubblico-privato, come succede in tanti altri paesi, hanno preferito assumere persone prive di qualsiasi esperienza attraverso un concorso pubblico basato essenzialmente su domande di cultura generale.

L’ultimo esempio, fra i tanti che si potrebbero fare, è l’inquietante idea dell’asilo obbligatorio. La polemica è esplosa quando Letta l’ha tirata fuori in campagna elettorale, salvo poi ridimensionarla subito, viste le reazioni negative, dicendo che la intendeva solo dai tre anni in su (che comunque è sempre troppo presto). Ma in realtà Bonaccini, molto vicino a Letta, generalmente ritenuto un moderato e da molti indicato come l’ennesimo “uomo della Provvidenza” che dovrebbe finalmente modernizzare il PD, la sostiene da anni, includendo esplicitamente anche l’asilo nido.

Come se non bastasse, Simona Malpezzi, capogruppo del PD al Senato nella scorsa legislatura, l’ha giustificata sostenendo che «significa semplicemente dire che si vuole lavorare contro la povertà educativa». Peccato però che ciò significa semplicemente dire che la famiglia non sa educare, mentre lo Stato sì: e questa, ahimè, è ancora una volta un’idea totalitaria. Tanto più, poi, che la sinistra è da sempre ostile alle scuole e agli asili privati e vorrebbe un’educazione esclusivamente statale, che ora vorrebbe addirittura far cominciare dalla culla.

Anche l’evoluzione della sinistra verso un’idea sempre più formalistica dell’educazione stessa e della scuola, così ben descritta da Ricolfi nel terzo capitolo del suo libro, è dovuta, oltre che alle cause da lui individuate, anche all’idea che ciò che conta davvero per l’inclusione sia il riconoscimento da parte dello Stato, indipendentemente dalle capacità che si sono (o non si sono) realmente acquisite.

Infine (e così chiudiamo il cerchio), gli esponenti della sinistra sono disposti a riconoscere come “giuste” solo ed esclusivamente le guerre che fanno loro, indipendentemente dalle motivazioni oggettive. Per quanto riguarda il passato gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: qui mi limiterò pertanto a ricordare lo sciagurato intervento in Libia, dove la sinistra riuscì nel capolavoro di accusare Berlusconi sia di aver cercato di salvare Gheddafi (all’inizio), sia di aver contribuito ad abbatterlo (alla fine).

Ma anche sulla guerra in Ucraina sta accadendo qualcosa di analogo, che merita invece di essere descritto in dettaglio, visto che fino alla manifestazione di domenica scorsa nessuno sembrava essersene accorto e che, per altro verso, è particolarmente emblematico della schizofrenia della sinistra, incapace, come dicevo prima, di scegliere tra la sua proclamata modernità e i suoi vecchi “tic” comunisteggianti. Infatti, non appena perse le elezioni il PD ha cominciato a riposizionarsi, in modo all’inizio quasi impercettibile, poi sempre più evidente, proprio come avevano fatto tre mesi prima i 5 Stelle (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/).

Anzitutto, domenica 2 ottobre, cioè esattamente una settimana dopo la sconfitta elettorale, Massimo Giannini, direttore di La Stampa (attualmente il quotidiano italiano più filo-PD, tanto che ha perfino varato un inserto satirico, Il giornalone, chiaramente ispirato al mitico Cuore dell’Unità), pubblica un editoriale intitolato Siamo tutti ucraini ma per la pace serve una via. In esso Giannini sostiene che finora la fermezza è stata giusta, ma adesso, con l’aumentare del rischio di una guerra atomica, bisogna assolutamente trattare, dimenticando allegramente che tale rischio è sempre esistito (anche se è basso) e, soprattutto, che fino al giorno prima a chi diceva le stesse cose aveva sempre rimproverato di non capire che le trattative sono impossibili perché Putin non le vuole.

Passa una settimana e il 9 ottobre, intervenendo alla trasmissione di Lucia Annunziata Mezz’ora in più, ben tre presidenti del PD (quello attuale, Valentina Cuppi, e due ex, Rosy Bindi e Gianni Cuperlo) fanno un discorso analogo, ma in termini assai più radicali, tanto da lasciare visibilmente stupita la stessa Annunziata. E negli stessi giorni Enrico Letta apre a una possibile partecipazione del PD a manifestazioni per la pace purché «senza bandiere di partito», il che è un’evidente ipocrisia, perché, bandiere o non bandiere, queste manifestazioni sono sempre state egemonizzate dal pacifismo di sinistra, che di fatto, fin dalla sua nascita al tempo degli euromissili e del celeberrimo slogan “meglio rossi che morti”, non ha mai perseguito la pace, ma la resa.

Un’altra settimana e di nuovo La Stampa il 16 ottobre pubblica due pagine intere intitolate In nome di Dio, fermate la guerra con passi tratti dall’ultimo libro di Papa Francesco. E la settimana dopo, il 24, altre due intitolate Il grido della pace. In queste ultime, oltre a dare ampio spazio al pacifismo cattolico, dedica ben quattro colonne a un articolo di Franco Cardini che parla della necessità di «riconoscere le ragioni russe» e di «non fermarsi alla dicotomia aggressore-aggredito»per ottenere la «fine dell’impegno militare russo». Quest’ultimo eufemismo starebbe per “invasione”, che però secondo Cardini tale non è, dato che «dal punto di vista russo, la guerra non è cominciata nel febbraio del 2022, ma nel 2014 e si è sviluppata con le vessazioni contro i russofoni d’Ucraina e con il mancato rispetto degli accordi di Minsk».

Come ognun vede, si tratta in sostanza degli stessi concetti, sia pure espressi con parole più accorte, dei celeberrimi audio di Berlusconi per i quali quest’ultimo era stato ferocemente attaccato da tutti i media di sinistra solo pochi giorni prima e che ora, improvvisamente, sembrano diventati accettabili. E si noti che Cardini è un tipico esponente di quel cattolicesimo tradizionalista che, in nome di un viscerale antiamericanismo, contribuisce molto ad alimentare i siti anti-vaccini e filo-russi che gli stessi media di sinistra hanno sempre ferocemente avversato, anche con buone ragioni, che però, improvvisamente, sembrano non essere più così buone.

Infine, domenica scorsa, 5 novembre, si passa dalle parole ai fatti, con le due grandi manifestazioni per la pace: quella di Milano, organizzata da Renzi e Calenda, in cui è chiarissimo il sostegno “senza se e senza ma” all’Ucraina, armi comprese; e quella di Roma, egemonizzata da Giuseppe Conte e dal pacifismo di sinistra, che invece di armi non vogliono nemmeno sentir parlare.

Al termine di quest’ultima il PD, che pure si era ecumenicamente diviso tra entrambe, dirama una nota in cui si dice: «Oggi ci siamo sentiti a casa. Pochi estremisti non possono sporcare una bellissima manifestazione». Come se il problema fossero i quattro gatti che hanno dato del “guerrafondaio” e “assassino” a Letta e non invece gli altri centomila che, pur senza insultarlo, erano tutti compattamente contrari a nuovi invii di armi e in grande maggioranza anche agli invii precedenti da lui stesso approvati (salvo poi concludere la manifestazione cantando Bella ciao, che come esempio di frattura tra ragione e realtà non è male, giacché è la storia di un giovane che decide di combattere per la libertà contro l’invasor…).

E non basta: a margine della stessa manifestazione, Gianni Cuperlo, ex presidente PD, invita addirittura a riflettere sull’opportunità di continuare a mandare armi all’Ucraina. Ve l’immaginate se l’avesse detto Berlusconi? Sarebbe venuto già il cielo! Ma l’ha detto Cuperlo, che è di sinistra, quindi non succede niente…

Ora, io non so se tutto ciò nasca da una precisa strategia studiata a tavolino o solo da una reazione “di pancia” che coglie istintivamente il pericolo, ma so che in ogni caso segue una logica ben precisa, per quanto perversa. Come potrebbe infatti la sinistra continuare ad approvare una guerra – fosse anche la “sua” guerra – quando questa fosse sostenuta da un governo “fascista”? Quindi, per intanto si comincia a mettere le mani avanti, poi si vedrà.

I passi successivi dipenderanno da cosa farà il nuovo governo. Se dovesse adottare una strategia più “morbida” verso la Russia, allora questi accenni di correzione di rotta non avranno seguito e il PD continuerà a proporsi come il paladino della fermezza contro la “fascista” Meloni, amica del “fascista” Putin. Ma se invece, come mi sembra scontato, il nuovo governo continuerà a mantenere una ferma linea atlantista, allora vedrete che il PD comincerà a cambiare posizione, prima cautamente, poi in modo sempre più marcato, non rinnegando ovviamente quanto fatto in passato, ma giustificando la propria svolta con argomenti simili a quelli di Giannini.

Continuando così, ci sono buone probabilità che l’atlantismo del PD non arrivi a mangiare il panettone. E siccome la maggior parte dei media gli vanno sempre a rimorchio e con l’arrivo del freddo i disagi legati al problema del gas aumenteranno, rischiamo di passare un Natale di fuoco, con un’opinione pubblica sempre più ostile alla politica filo-atlantica e filo-ucraina del governo. Il che è esattamente ciò che il PD vuole, ma è più o meno l’ultima cosa di cui il paese ha bisogno.

Non resta che sperare che gli ucraini per allora abbiano già chiuso la partita, ipotesi per niente affatto utopistica, giacché se cade Kherson (cosa che nel momento in cui scrivo, martedì 8 novembre, sembra essere ormai questione di giorni) la controffensiva ucraina arriverà presto al Mar Nero, separando il Donbass dalla Crimea, e allora potrebbe crollare l’intero fronte russo. Ma questo è un altro discorso.

Ciò che invece volevo qui evidenziare è che questa vicenda mostra con particolare chiarezza quanto detto in precedenza sull’invincibile convinzione degli esponenti del PD (e della sinistra liberal in generale) di essere sempre e comunque dalla parte giusta, qualsiasi cosa facciano, anche quando questo “qualsiasi” significa prima una cosa e poi il suo esatto contrario; nonché sulla loro altrettanto invincibile tendenza a rifugiarsi nell’“usato sicuro” del loro vecchio armamentario di idee comunisteggianti ogni volta che si trovano in crisi di identità.

Volendo riassumere tutto ciò in una formula, potremmo dire che fino ad oggi la sinistra occidentale ha perseguito la sua modernizzazione essenzialmente cercando di adottare un’ideologia liberal contaminata da elementi residui di comunismo. Al contrario, una forza che voglia essere davvero di sinistra e davvero adeguata ai tempi dovrebbe adottare un’ideologia comunitaria depurata dagli elementi residui di comunismo: cioè l’esatto opposto di quel che sta facendo.

Chiaramente ciò non è facile, perché è un modello tutto da inventare, ma di buone idee in giro ce ne sono. Per esempio: il comunitarismo di MacIntyre; l’approccio “energetico” all’economia di Václav Smil, che unisce ecologismo non ideologico e critica al capitalismo su una base rigorosamente scientifica; la rivalutazione delle character skills all’interno della teoria economica più recente; il principio di sussidiarietà, che è previsto anche dalla Costituzione e mi è particolarmente caro, non perché sono cattolico, ma semplicemente perché funziona (almeno nei pochi casi in cui è stato applicato davvero); per non parlare dei tanti suggerimenti dati nel corso degli anni da Ricolfi, per cui rimando ai suoi articoli e libri. E si potrebbe continuare.

Il vero problema, come si vede, non è che mancano le buone idee, ma che manca chi se ne faccia portatore. Questo, però, oltre che un problema, è anche e soprattutto un’opportunità: benché tali idee perlopiù non siano state prodotte dalla sinistra, infatti, una sinistra del tipo che ho auspicato potrebbe farle proprie. Ma per valorizzare un’idea bisogna innanzitutto vederla, cosa che non potrà mai accadere finché si continuerà a guardare ostinatamente dalla parte opposta.

Certo, anche quando questo atteggiamento cambiasse, il cammino non sarebbe comunque facile, dato che una larga parte dell’elettorato di sinistra è tuttora sensibile (e verosimilmente lo resterà a lungo) al richiamo dell’ideologia. E, ovviamente, ci sarà sempre qualcuno che ne approfitterà per mettere in piedi qualche formazione politica capace di attirarne i voti, come finora è regolarmente accaduto di fronte ad ogni tentativo di riforma. L’ultimo caso è quello dei 5 Stelle, che sono nati come movimento trasversale, ma che a partire dal luglio scorso Giuseppe Conte ha spostato sempre più decisamente a sinistra, accorgendosi che lì c’era un ampio spazio lasciato scoperto dal PD e non adeguatamente presidiato dai vari partitini comunisti, soprattutto sul fronte del pacifismo.

Per la sinistra, quindi, abbandonare definitivamente il comunismo significa inevitabilmente dividersi e, di conseguenza, continuare a perdere ancora per parecchio tempo. Ma non farlo significa rischiare di continuare a perdere per un tempo ancora più lungo e, quel che è peggio, non essere in grado di combinare nulla di buono neanche se per caso dovesse tornare a vincere.

Addirittura, se continuerà a voler tenere insieme tutto e il contrario di tutto, il PD rischia di essere progressivamente fagocitato dai 5 Stelle a sinistra e da Renzi-Calenda a destra, come in parte sta già accadendo e come è stato plasticamente mostrato dalla divisione fisica dei suoi dirigenti tra le due manifestazioni di Roma e Milano. In tal caso il suo destino sarebbe quello di trasformarsi da partito radicale di massa in un partito radicale a tutti gli effetti, percentuale elettorale del 2% inclusa, mentre il compito di costruire una sinistra comunitaria ma non comunista potrebbe passare alla formazione di Renzi-Calenda (se riuscirà a sopravvivere ai loro caratteri fumantini) o magari a qualche oscuro partitino della sinistra comunitaria (se riuscirà a liberarsi dell’ipoteca marxista), che potrebbe così ripercorrere i fasti della destra meloniana.

Oppure, qualora la sinistra se ne dimostrasse definitivamente incapace, il compito di tutelare le classi più deboli potrebbe passare in pianta stabile alla destra, se saprà completare la propria evoluzione, trasformandosi definitivamente in un partito comunitario ma non populista.

Va però riconosciuto che il compito che la sinistra ha davanti, già di per sé stesso molto arduo, è reso ancor più complicato dal fatto che molte delle idee di origine comunista di cui ho parlato, insieme ad altre che non ho invece nominato perché non hanno un’influenza diretta sulla politica (ma ce l’hanno sulla mentalità generale, che indirettamente influisce anche sulla politica), sono oggi inconsapevolmente accettate non solo dalla sinistra, ma praticamente da tutti, compresi gli anticomunisti dichiarati. Ne parlerò nel prossimo articolo, che chiuderà questa sorta di “trilogia del comunismo”, prima di passare, come promesso, ad altri argomenti più legati alla scienza.

Paolo Mussa