-IL CASO Da Ruby a Mion. Quando indagare un testimone è contro lo stato di diritto

Categoria: Italia

Davigo parla al suo processo e sembra un giustiziere megalomane

24.5.2023 G.Stampanoni Bassi, Antonucci ilfoglio.it lett2’

-IL CASO Da Ruby a Mion. Quando indagare un testimone è contro lo stato di diritto

GUIDO STAMPANONI BASSI 24 MAG 2023 ilfoglio.it

L'assoluzione degli imputati della sentenza Ruby-ter da parte del tribunale di Milano è dovuta a delle fondamentali regole giudiziarie. Le stesse che andrebbero applicate anche nel caso dell'ex ad di Holding Edizioni nel processo sul crollo del ponte Morandi

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Qualche giorno fa sono state depositate le motivazioni della sentenza Ruby-ter, con le quali il tribunale di Milano – con una pronuncia da incorniciare – ha spiegato come l’assoluzione degli imputati non fosse affatto dovuta ad un cavillo, ma a fondamentali regole di civiltà giuridica. La premessa è che se nei confronti di una persona sono emersi indizi di reità – e ciò a prescindere dal fatto che sia indagata – l’autorità giudiziaria non può trattarla come un mero testimone (ossia chi, con obbligo di verità, è chiamato a riferire ciò che è a sua conoscenza), dovendo, al contrario, riconoscerle una serie di garanzie, tra le quali l’avviso della facoltà di non rispondere (diritto al silenzio). Nel caso Ruby, nonostante fossero emersi nei confronti delle imputate plurimi indizi di reità ben prima delle loro dichiarazioni, le stesse erano state esaminate nelle forme previste per i testimoni anziché in quelle previste gli indagati. La questione, lungi dall’essere un cavillo, è di pura sostanza e il tribunale ci ha tenuto a precisarlo in maniera netta: “qui non si discute di un mero sofisma, di una rigidità processuale o di una sottigliezza tecnica priva di contenuti: tutelare il diritto al silenzio significa assicurare l’effettività della garanzia di un principio che innerva l’essenza del sistema processuale e affonda le radici direttamente nel diritto di difesa, costituzionalmente presidiato e pietra d’angolo dell’ordinamento giuridico”.

Davigo parla al suo processo e sembra un giustiziere megalomane

ERMES ANTONUCCI 24 MAG 2023

Sentito a Brescia, dove è imputato per rivelazione di segreto d'ufficio, l'ex pm di Mani pulite ha detto di essersi fatto consegnare i verbali di Amara coperti da segreto "per far tornare la vicenda nel binario della legalità"

E’nello spirito forcaiolo che ha sempre segnato il pensiero di Piercamillo Davigo che va rintracciata la principale origine del caso Storari-Amara. A confermarlo sono le parole rilasciate dallo stesso ex pm di Mani pulite ieri davanti al tribunale di Brescia, dove è imputato per rivelazione di segreto d’ufficio. Nell’aprile 2020 Davigo si fece consegnare i verbali segreti di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria dal pm milanese Paolo Storari, che intendeva tutelarsi dall’inerzia a suo dire praticata dai vertici della procura (l’allora capo Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio) attorno all’inchiesta. Perché l’allora consigliere del Csm convinse Storari a consegnargli i verbali segreti? “Amara – ha spiegato Davigo ai giudici – dichiarava di essere appartenente a un’associazione massonica segreta che era la prosecuzione della P2, aveva detto che il Csm precedente sarebbe stato totalmente controllato dalla loggia Ungheria. Il problema era che quel consiglio aveva effettuato circa mille nomine di magistrati direttivi e semi direttivi per via dell’abbattimento dell’età pensionabile. Ho pensato fosse un colpo sferrato all’ordine giudiziario nel suo complesso. Il Csm doveva esercitare un riesame in auto-tutela delle proprie nomine”.