Il manifesto. Partiti, il finanziamento non si vede ma c’è

Categoria: Italia

Quattro associazioni lanciano un manifesto su una delle questioni più spinose della politica italiana

Fabio Martini — 16 Aprile 2024 ilriformista.it lettura5’

Nella storia della Repubblica poche vicende restano ancora oggi opache e misteriose come il finanziamento ai partiti e alla politica.

Molto si è scritto e discusso sulla normativa che nel corso dei decenni ha via via regolato questa materia, ma pochissimo continua a sapersi, in particolare sulle vicende materiali e concretissime della fase nascente di questa storia. Ma fu proprio allora, nei primi anni del secondo Dopoguerra, che furono gettate le basi di una pingue alimentazione della politica che sarebbe risultata senza eguali nell’Europa occidentale e segnata da grande opacità. Nel 1945-1947 l’Italia si ritrovò sulla frontiera orientale del campo occidentale, sulla frontiera di quelli che sarebbero diventati due campi politico-ideologici contrapposti, divisi da tante cose, ma soprattutto da una: l’opposta concezione della libertà.

Questa collocazione strategica dell’Italia indusse la Cia a finanziare le forze politiche filo-occidentali italiane, in primis la Dc, con un impegno non paragonabile ad altri Paesi.

In quegli stessi anni l’Unione sovietica istituì un Fondo speciale, attraverso il quale supportò tutti i partiti comunisti e molti anni dopo si sarebbe scoperto che il Pci era il più sovvenzionato al mondo, in Italia in modo illegale. Nel 1974, per sopperire a questa anomalia, peraltro conosciuta dal mondo politico più che dall’opinione pubblica, venne approvata una legge per il finanziamento pubblico dei partiti e da quel momento iniziò una stagione altrettanto originale: referendum abrogativi, alternarsi brusco di normative contrapposte e di accomodamenti da parte dei partiti.

Tutto aveva avuto inizio subito dopo il 25 aprile 1945: le spese dei partiti erano relativamente contenute, pochi stipendiati fissi, retribuzioni sotto le tabelle. Ma in pochi anni la musica cambia. Il Pci costruisce un apparato potente, grazie al decisivo appoggio di Mosca che – sotto banco – rinuncia ai contributi ad intermittenza, inizialmente ricavati dal contrabbando di pelli pregiate e passa ad un flusso costante e corposo. Grazie alla fondamentale ricerca dello storico russo Victor Zaslavsky, si è potuto scoprire che, poco dopo la costituzione nel 1950 a Mosca dello speciale “Fondo per l’aiuto ai Paesi comunisti”, già nel 1958 con una tranche annuale di quasi 4 milioni di dollari, il Pci assorbiva addirittura il 54% del totale del Fondo, un primato costante negli anni. Quando Togliatti muore, nel 1964, il Pci aveva incassato in pochi anni 60 milioni di dollari. Una fortuna.

 

Certo, il Pci era un grande partito perché disponeva di una classe dirigente degna di questo nome – ogni paragone con l’oggi sarebbe irriguardoso per la storia dei comunisti italiani – ma indubbiamente l’egemonia a sinistra nel mondo culturale e la trasformazione del Pci nel più votato partito comunista al mondo furono tratti favoriti da un poderoso finanziamento occulto. Ma con quell’apparato da fronteggiare, la Dc dovette adeguarsi e dunque anche la sua strepitosa fortuna elettorale non è merito soltanto della sua classe dirigente. William Colby che negli anni Settanta sarebbe diventato direttore della Cia, nella sua precedente attività di agente segreto, nel 1952 si era trasferito a Roma e successivamente nelle sue memorie scrisse che negli anni Cinquanta fu investita in Italia, in funzione anti-Pci “la somma più alta che mai l’agenzia avesse stanziato”, concentrandosi sulla Dc, sui partiti laici di governo, esclusi missini e socialisti.

Ovviamente non c’erano soltanto i dollari americani e sovietici: dalla fine degli anni Quaranta e a lungo le principali imprese foraggiarono i partiti di governo e dalla fine degli anni Cinquanta diede una corposa mano anche il sistema delle Partecipazioni statali, voluto da Amintore Fanfani. Questo fiume di denaro alimentò fenomeni senza eguali nel resto del mondo. Sino alla caduta del Muro di Berlino, l’Italia è stato l’unico Paese nel quale quasi tutti i partiti si concedevano il lusso di pubblicare un giornale: in Europa soltanto il partito comunista si permetteva di pubblicare un quotidiano, l’Humanité.

Per ben 30 anni i partiti furono finanziati illegalmente e misteriosamente e soltanto nel 1974, sull’onda dello scandalo dei petroli, fu approvata la prima legge per il finanziamento pubblico che stanziava 45 miliardi di lire più 15 i occasione di ogni elezione.

Fu proprio in quella occasione che prese forma quello che sarebbe diventato, non per scelta ma di fatto, un modello italiano. Segnato dal carattere emergenziale; dall’inefficacia nel sistema dei controlli; dalla grande quantità di risorse pubbliche messe a disposizione dei partiti; dalla costante incoerenza tra finanziamento e regolamentazione interna democratica e trasparente; dal carattere ondivago degli interventi. Valgano a controprova di quanto detto i quattro successivi passaggi, che parlano da soli. Quattro anni dopo la legge, viene promosso il primo referendum: respinto col 56.4% dei no, percentuale che fa pensare quale fosse allora la credibilità dei partiti. Ma nel 1993 un nuovo referendum abrogativo, quella volta è condiviso, col 90,3% dei sì.

A quel punto i partiti, con un escamotage all’italiana, riescono ad inventarsi un nuovo finanziamento, ma camuffato come rimborso per spese elettorali; nel 2013 il governo Letta abbatte questa finzione e, almeno dal punto di vista formale. anche l’istituto del finanziamento pubblico ai partiti. Nasce così un sistema (11 anni dopo ancora in vigore) che è alimentato da due motori: i finanziamenti privati (che dal 2013 godono di una detrazione fiscale aggiuntiva) e la devoluzione volontaria da parte dei contribuenti del due per mille IRPEF. Non sono mai stati cancellati i fondi per i Gruppi parlamentari, che rappresentano una forma indiretta di finanziamento pubblico. Le modalità di erogazione sono state modificate dopo una vicenda poco edificante che interessò la Lega ai tempi di Bossi e da allora i finanziamenti, stabiliti ogni anno in autonomia dalle due Camera sono vincolati a spese per i Gruppi parlamentari (compresi gli stipendi per i dipendenti) e il loro ammontare nel 2023 è stato di 52, 9 milioni. In conclusione il finanziamento pubblico dei partiti tout court è stato abolito ma attualmente sono tre gli affluenti che alimentano le casse dei partiti. Non è semplice reperire questi dati, il sistema è poco trasparente, ma i grandi numeri sono disponibili.

 

Nel corso del 2022 attraverso il 2 per mille i partiti hanno incassato 20 milioni e mezzo di euro e il partito che ha accolto più fondi è stato il Pd con 7,3 milioni; dalle donazioni private sono arrivati 32,2 milioni, dei quali 9,7 milioni da “rimesse” dei politici eletti”,7,3 milioni da persone fisiche (in gran parte imprenditori) e 4,6 milioni da società; e infine, dopo la riduzione dei parlamentari, i Gruppi di Camera e Senato continuano a ricevere complessivamente 52,9 milioni di euro, ripartiti secondo la consistenza parlamentare.

Volendo tirare le somme e, tenendo conto che, per la quota “privata”, i numeri possono variare di anno in anno, se restiamo alle certezze, nel corso del 2022 i partiti hanno complessivamente incassato 105 milioni, dei quali 62,6 di provenienza pubblica.

Dunque, sia detto col beneficio dell’inventario e tenendo presente la quota varabile ogni anno, alla fine di questa legislatura, se non sarà interrotta anticipatamente, i partiti avranno incassato una cifra che si aggirerà attorno al mezzo miliardo di euro, dei quali oltre 300 di provenienza pubblica. Sono grandezze delle quali non c’è piena consapevolezza tra l’opinione pubblica e che lasciano ampio spazio alla riflessione e all’intervento di chi reclama più trasparenza e più democrazia.

Fabio Martini