Soncinomics. I rimborsi spese di Hemingway, Pio e Amedeo, e il problema della sinistra coi soldi Fare lavori intellettuali mal pagati (o addirittura gratis)

Categoria: Italia

è uno dei lussi che ti guadagni pretendendo per il resto tariffe che ti consentono di campare comodamente. La lotta antifascista, poi, val bene un mancato chaffeur

23.4.2024 lGuia Soncini, linkiesta.it lettura6’

Se permettete parliamo di soldi. Non solo perché farei di tutto per rimandare l’ennesimo articolo sull’aborto nel dibattito pubblico che da giorni dico a me stessa di dover scrivere. Non solo perché ho bisogno di rimuginare un altro po’ prima di scrivere del nuovo romanzo di Alessandro Piperno. Soprattutto, perché è il mio argomento preferito.

«Scurati insegna all’università». Me l’ha detto ieri, in tono risentito, un amico che ascriverei alla sinistra novecentesca. Non ho niente contro la sinistra novecentesca, ho molti amici della sinistra novecentesca: hanno tutte le priorità sballate. (Pure quelli della sinistra postmodernista, ma sballi diversi).

La ragione per cui l’amico rimarcava il ruolo di docente di Scurati è che, diceva lui, la parola più offensiva del mio articolo di ieri era «bestsellerista». Pensavo intendesse che era brutta come parola, ma no: aborriva proprio il concetto. Ho pensato per un attimo di spiegargli che insegnare all’università è alla portata dei cani e dei porci, procurarsi una carriera di stravenduto dopo lunghi inizi da scrittore senza mercato è un primato di pochi. Poi ho taciuto: abbiamo tutti una certa età, dal Novecento mica ti redimi più.

Sulla pagina Instagram di questo giornale, che come tutte le pagine di tutti i giornali è commentata da gente ricca di comprensione del testo e del tono, una qualche Vongola scriveva ieri che io dicevo dei milleottocento euro lordi per far passare il messaggio che Antonio Scurati fosse orrendamente avido.

Mentre ridevo con le lacrime, ripensavo ai poveri intermediari, ai poveri funzionari dell’ufficio scritture, ai poveri autori di programmi cui negli anni era capitato (pochissimo, ovviamente) di propormi qualche ospitata e sentirsi dire che io col cazzo che mi faccio tre ore di treno, una notte fuori, trucco e parrucco, altre tre ore di treno, per la cifra che prendo per un articolo che scrivo in mutande dal mio divano. Il sottotesto di «milleottocento», amica Vongola, non è l’avidità: è che quei milleottocento sono due lupini e un’oliva.

E, tuttavia, sono i due lupini e un’oliva di cui dispone il lavoro culturale in questo secolo in cui si guadagna una frazione rispetto a quello precedente. Prendono quattro spicci gli autori di Sanremo, figuriamoci cosa possono prendere gli ospiti di talk-show a costo zero o quasi (sì, lo so: quei quattro spicci tu che fai l’insegnante li prendi in un mese – lo vedi che alla fine ha sempre ragione la Meloni?).

Anni fa lessi una favolosissima indignazione su una bacheca Facebook. Non ricordo con che pretesto mi si stesse insultando, ma arrivò una – più vecchia di me, non una ventenne squattrinata per ragioni anagrafiche – e spiegò che io ero colpevole della sua miseria. Quando lavoravamo nello stesso gruppo editoriale, raccontò, io mi facevo pagare talmente tanto che poi non avevano i soldi per pagare lei.

Tutti ci siamo prima o poi sentiti dire «non c’è budget»: negli anni Novanta lavoravo per la Rai, e ogni anno la tizia dell’ufficio contratti mi offriva meno dell’anno prima perché eh, ci hanno ridotto il budget. Abbiamo passato gli anni Novanta a pensare che non ci fossero più soldi (e a sentirci dire da chi era lì da prima che, eh, ormai è tutto finito, cara mia, sei arrivata tardi), e trent’anni dopo guardiamo a quelli come agli anni delle vacche grasse.

 

Però va detto che quando io lavoravo per RadioRai potevo raccontare a me stessa che mi pagavano poco non perché valevo poco ma perché i soldi li usavano tutti per Fiorello; quando questa poracrista veniva pagata poco da un certo giornale, le toccava dire a sé stessa che il budget se l’era preso tutto quella culona di Soncini, e insomma doveva essere frustrante.

La sinistra italiana ha un gigantesco problema coi soldi. Ce l’ha la tizia che ha rimuginato per decenni sui borderò che le avevo sottratto, ma probabilmente non ha mai detto a una caposervizio «io per questa cifra non ti sto neanche rispondendo al telefono» (mia risposta standard alle telefonate che offrono lavori con compensi inadeguati). Ce l’ha il tizio che mi dice che «bestsellerista» è un insulto. Ce l’ha la Vongola che pensa che milleottocento euro al lordo delle tasse e dell’Enpals e della percentuale d’agenzia sia un corrispettivo avido per andare a cinquecento chilometri a leggere il tuo compitino.

C’è una storia che piace molto raccontare agli scrittori americani, che si lamentano dei tariffari di questo secolo persino più spesso di quelli italiani. È una storia di ottant’anni fa. Quella d’un corrispondente di guerra che va in Normandia per una rivista, rivista che lo fa lavorare solo perché ha stima della moglie, che già lavora per loro. Al ritorno lo scrittore racconta a un esimio collega che non ha intenzione di mettere nei suoi reportage per la rivista le cose migliori che ha visto: se le tiene per un libro.

Il che però non osta al mandare alla rivista, nell’arco di qualche mese (nel corso dei quali si era pure trovato una nuova moglie), i sei articoli concordati, la cifra pattuita per i quali era di tremila dollari l’uno (tremila dollari del 1944, lo ribadisco per i lettori di sinistra), più il rimborso delle «spese ragionevolmente sostenute».

Nel 1945 lo scrittore invia la propria nota spese, che include un autista, due segretarie, gli occhiali che aveva perso, le cene (e i dopocena) alle quali invitava militari che gli raccontassero cose, insomma tutto ciò che può venirvi in mente per un totale di, stiamo sempre parlando di soldi del 1945, tredicimilaquattrocentotrentasei dollari (e settantacinque centesimi, se vogliamo essere precisi). Quelli che sanno fare questi conti dicono che sono centonovantamila dollari di oggi.

Il corrispondente di guerra avido si chiamava Ernest Hemingway, e a lui penso ogni volta che vedo qualche storia Instagram di qualche scrittore di cosiddetto successo di questo secolo che va in terza classe a presentare qualche libro a qualche evento culturale per presenziare al quale gli pareva poco intellettuale chiedere un cachet.

Penso a monsieur Hemingway spessissimo, per esempio quando un amico mi racconta che dal giornale per cui scrive l’hanno chiamato per dirgli che si sono accorti che ha presentato una ricevuta di taxi di nove euro per un giorno in cui non risulta fosse al lavoro e quindi non gliela possono rimborsare. In genere rispondo «beh, anche a Hemingway fecero storie per i duemila e duecento dollari di mignotte», e perdo un amico: a nessuno fa piacere ricordarsi di vivere in un secolo in cui è in sessantaquattresimo l’intelletto e sono in sessantaquattresimo anche i guadagni.

Una ventina d’anni fa, al bar dell’hotel d’Inghilterra a Roma, un uomo al quale avevo (ridendo, involontariamente) appena sputato addosso il mio cocktail mi disse piccato «Non è bello sbeffeggiare un direttore perché ha poco budget». Mi aveva appena offerto una cifra per la quale neanche ti rispondo al telefono (autocit.) per tenere una rubrica sul suo giornale. Credo sapesse, come tutti, una cosa che però diciamo poco a voce alta.

Che non esistono cifre assolute. Che tutti quelli che sanno farsi pagare fanno però anche moltissime cose gratis o per cifre ridicole. Perché sono cose che tengono a fare, o che li diverte fare, o anche solo perché hanno in simpatia chi gliele chiede. Giusto ieri ho accettato di partecipare a due cose pagate tre datteri e due biscotti solo perché mi erano simpatiche le persone coinvolte: fare lavori mal pagati (o addirittura gratis) è uno dei lussi che ti guadagni avendo per il resto tariffe che ti permettono di campare comodamente.

Anni fa avevo un libro in promozione. L’ufficio stampa della casa editrice mi disse, assai imbarazzata, che un autore di Floris voleva parlarmi per capire se fosse il caso d’invitarmi. Volevo sottopormi a questa umiliante audizione? Ma certo, diamine: mettere me stessa in imbarazzo è ciò di cui campo.

Fu una telefonata abbastanza lunga di cui ricordo lo svolgimento (lui chiedeva se fossi a favore o contro qualcosa, io gli spiegavo che era una domanda imbecille) ma purtroppo non tutti i temi. Solo uno: Pio e Amedeo. Ho raccontato molte volte questa storia, sempre convinta che fosse un eccellente esempio di com’è messo il dibattito pubblico: per capire se riesci a collocare una tizia in un talk show, devi sapere che posizione etica e politica e ideologica assume rispetto a Pio e Amedeo. (L’autore di Floris decise saggiamente di non invitarmi, essendo io tragicamente mancante d’una visione morale delle opere di Pio e Amedeo).

In questi giorni di coda lunga scuratiana, leggo Jennifer Guerra, chiunque ella sia, raccontare che si sarebbe dovuta collegare col programma di Serena Bortone per parlare d’aborto, ma nonostante avesse lungamente parlato con un’autrice il collegamento non si è mai fatto. Dice che l’hanno censurata. Ma, se ogni programma che voleva invitarti e poi invece no è un programma che ti censura, allora hanno censurato anche me, puntesclamativo. (Chissà cosa pensa Jennifer Guerra di Pio e Amedeo).

Forse Jennifer Guerra, che ha un libro in promozione, ha parlato con l’autrice della Bortone per la stessa ragione per cui io parlai con l’autore di Floris: perché la tv serviva a lei più di quanto lei servisse alla tv. È censura, se non ti fanno vendere il tuo prosciutto nel loro programma?

 

Oppure, visto che il tema del suo previsto intervento era l’aborto, era una scelta militante: voleva difendere una certa posizione su un tema che le è caro. Certo che il lavoro intellettuale va pagato, come da quattro giorni si affanna a spiegare, a noialtri che di lavori intellettuali campiamo da una vita, gente che con l’intelletto al massimo fa il sudoku. Ma, se in Italia ci sono il fascismo o gli obiettori di coscienza o la pizza con l’ananas, e tu ci tieni a risvegliare le coscienze su un tema cui tieni, forse quello è uno dei casi in cui puoi persino rinunciare a farti rimborsare l’autista. Et alors, monsieur Hemingway, ça va mieux?