Cronaca di un disastro annunciato Automotive a rischio desertificazione,

10 operai per produrre motore diesel, uno per l’elettrico: il costo salato di una rivoluzione frettolosa

Giuseppe Volpe 27 11, 2024 alle 13:43ilriformista.it lettura3’

Una mobilità meno inquinante sarebbe importante, ma così l’impatto industriale si preannuncia devastante La Cina potrà produrre di più e avere maggiori fondi per ricerca e sviluppo, affermandosi a nostro discapito

Automotive a rischio desertificazione, 10 operai per produrre motore diesel, uno per l’elettrico: il costo salato di una rivoluzione frettolosa

La focaccia bollente con la birra ghiacciata sul lungomare, i gol di Antonio Cassano e il common rail, ovvero il miglior sistema di iniezione di motori diesel e benzina mai realizzato. Queste sono tre delle cose che i baresi hanno finora consegnato alla storia dell’umanità. L’ultima delle tre, però, sarà vittima – insieme a migliaia di lavoratori della filiera – del processo di desertificazione industriale nel settore automotive legato alla frenetica accelerazione europea nella transizione alla mobilità elettrica.

Benzina e diesel al bando

Tutto ebbe inizio con un pacchetto di misure green adottato a Bruxelles per traghettare l’Europa verso una mobilità meno impattate dal punto di vista ambientale, con costi sociali ed economici però drammatici. La scelta europea di mettere al bando le auto diesel e benzina a partire dal 2035 fu assunta negli stessi anni del cosiddetto “Qatargate” – il fenomeno di corruzione di alcuni parlamentari europei a opera di paesi stranieri – e da talune parti se ne coglie l’indizio dell’estensione di quel modus operandi ad ambiti extra-calcistici. Sebbene una mobilità meno inquinante sia un obiettivo auspicabile per qualsiasi europeo dotato di polmoni, l’impatto sociale e industriale di una transizione così frettolosa è stato finora argomento poco noto al grande pubblico, ma molto nitido per i decisori europei che tuttavia non hanno mai riconsiderato le proprie scelte.

10 operai per motore diesel, uno per l’elettrico

IG Metall, il sindacato tedesco dei metalmeccanici, per esempio, fa da anni notare che – laddove per produrre un motore diesel ci vogliono 10 operai – per produrre l’equivalente motore elettrico, più semplice per disegno e componentistica, ne basta uno. E quel singolo operaio, con tutta probabilità, non sarà mai europeo. Se diesel e benzina sono tecnologie prevalentemente prodotte in Italia, Germania, Francia e Stati Uniti, infatti, la mobilità elettrica è una tipicità asiatica, con la Cina attualmente in posizione predominante sia dal punto di vista tecnologico sia (e il fenomeno è strettamente correlato) da quello commerciale. I cinesi hanno smesso di acquistare auto europee e nel frattempo gli europei hanno smesso di acquistare auto: una combinazione perfetta di fattori che ulteriormente porta il gigante asiatico a produrre di più, a vendere di più e quindi ad avere maggiori fondi per fare ricerca e sviluppo e corroborare il proprio primato. Anche laddove non bastassero i sussidi pubblici propri di un’economia socialista.

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Un’auto elettrica ogni quattro benzina/diesel

Nel frattempo nel Vecchio Continente entra in vigore il Regolamento CAFE, un nomen omen che provoca l’insonnia dei produttori di auto europei. Dal 2025, infatti, per evitare pesanti sanzioni pecuniarie le aziende automobilistiche europee dovranno vendere almeno un veicolo elettrico ogni 4 veicoli a benzina/diesel, nonostante una domanda di veicoli elettrici ridotta all’osso dai prezzi delle automobili – non del tutto legati a fenomeni speculativi – e da difficoltà logistiche e culturali che ancora evidentemente sconsigliano all’automobilista medio di affidare i propri spostamenti alle batterie. La soluzione finora è stata quella degli incentivi all’acquisto, ma gli Stati membri – anche davanti a una messa al bando comunitaria – hanno proceduto in ordine sparso. La fortuna di questa soluzione è stata tutt’altro che omogenea e i reali impatti, dal punto di vista del sostegno agli automobilisti per un effettivo rinnovamento del parco auto circolante e dal punto di vista del sostegno all’industria europea, sono tutt’altro che significativi.

L’Italia dal canto suo ha annunciato la fine degli incentivi all’acquisto e lo spostamento a non meglio definitivi incentivi alla produzione locale di componentistica automotive, e ha investito il proprio ministro delle Imprese Urso del compito arduo di costruire a livello europeo una coalizione di paesi in grado di invocare – e con estrema urgenza – una revisione delle norme europee sull’automotive. L’impressione è che l’impresa sia giuridicamente titanica e che a tanti operai non resterà che sedersi su un lungomare a gustare focaccia e birra. Le cose che si faranno a Bari anche quando non si produrranno più auto in Europa.

Giuseppe Volpe

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