Genova per voi Il mantra dell’unità non basterà a salvare la sinistra da se stessa

Categoria: Italia

L’idea che a ostacolare l’alleanza siano solo personalismi è un modo di svilire il proprio ruolo, riducendo la politica a lite da asilo,

Francesco Cundari 27 Maggio 2025 linkiesta.it lettura3’

scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette

Il centrosinistra ha vinto la piccola tornata amministrativa di ieri, conquistando al primo turno Genova e Ravenna, e avviandosi al ballottaggio con un discreto vantaggio sugli avversari anche a Matera e Taranto. Il risultato di Genova in particolare fa esultare il centrosinistra, che qui si era presentato nella formazione più ampia, offrendo al Partito democratico l’occasione di rilanciare due tesi fondamentali: che è iniziato il declino del centrodestra (i sondaggi non consentono ancora di parlare di crisi, per cui si sprecano le circonlocuzioni più sfumate e immaginifiche sul cambiamento del clima o del vento, sull’incrinarsi del rapporto col paese, e via così) e che «uniti si vince». Per quanto riguarda la prima tesi, va detto che a Genova anche Andrea Orlando era arrivato in testa, alle regionali di appena qualche mese fa, perse contro l’ex sindaco di Genova Marco Bucci. Per quanto riguarda la seconda tesi, la preferita dei talk show e di tutti i commenti a caldo, si può provare forse ad allargare un po’ il discorso. Del resto, si può mai essere a favore della divisione invece che dell’unità, convinti che per vincere le elezioni sia meglio farsi la guerra anziché allearsi? Però questa idea, sempre ossessivamente ripetuta, per cui da una parte ci sarebbe l’esigenza dell’unità e dall’altra, come unico ostacolo, i «personalismi», non rende in realtà un buon servizio a quegli stessi dirigenti del Pd che pure sono i primi a diffonderla. Senza capire che in tal modo sviliscono se stessi e il loro ruolo, riducendo la politica a una lite da asilo, in un’ottica che finisce per considerare qualunque questione di merito (la pace e la guerra, le tasse, i diritti) come puri pretesti, cose senza importanza a fronte della necessità di vincere le elezioni.

Ancora più deprimente è l’altro argomento ossessivamente ripetuto in queste circostanze, e cioè che anche i partiti di centrodestra sono divisi su quasi tutto, ma poi alle elezioni si presentano uniti e governano insieme. Uno splendido esempio di come il bipolarismo di coalizione arrivi a corrompere persino l’analisi politica, innalzando a modello la pura e semplice presa in giro degli elettori e il più assoluto relativismo per qualunque questione di merito, comunque secondaria rispetto alla priorità della presa del potere. Discorso di assoluto cinismo, fatto per di più con i toni moralistici di chi si appella alla suprema responsabilità di salvare il paese dalle fauci dell’avversario. Siccome però questo è il sistema che abbiamo e che verosimilmente dovremo tenerci ancora per un bel po’, con questo occorre fare i conti. Ma il punto allora non è ripetere ogni tre minuti quanto sia importante unirsi invece che dividersi. Per questo basterebbe non fare segretario Enrico Letta, capace di rompere tanto con Giuseppe Conte quanto con Matteo Renzi e Carlo Calenda, per presentarsi al voto con Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, per fare l’intera campagna elettorale da ultra-draghiano: un altro maestro nell’art of the deal.

Il punto è qual è la linea su cui, eventualmente, ci si unisce (o anche ci si divide). Ed è qui che sta la vera novità portata da Schlein, tanto più dopo le scelte di rottura compiute in politica internazionale, in particolare sulla difesa comune europea, e sul referendum contro il Jobs Act (al riguardo, segnalo l’articolo di Lidia Baratta sui rischi di imprevisti effetti collaterali, e paradossali, dall’eventuale vittoria dei Sì). In breve, se questo fosse lo scenario al momento delle elezioni, sarebbe la prima volta nella storia in cui a guidare la coalizione di centrosinistra non sarebbero una forza e una leadership riformiste – qual era anche, indiscutibilmente, quella di Pier Luigi Bersani nel 2013 – ma un Partito democratico e una segretaria nettamente spostati su posizioni radicali (forse dovrei dire populiste, ma non ho voglia di litigare).