La guerra contro le università. La torsione autoritaria in corso in America parla anche di noi

Categoria: Italia

Meloni e Salvini fanno a gara nel ricopiare le campagne di Trump parola per parola (comprese quelle di più ardua traduzione) ,

Francesco Cundari 22 Ottobre 2025 linkiesta.it lettura2’

scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette

Se si voleva una dimostrazione irrefutabile di chi sia davvero contro la libertà di espressione, la libertà accademica e la libertà tout court, penso che la testimonianza del Wall Street Journal, storico giornale conservatore, da sempre più che indulgente con Donald Trump, dovrebbe essere più che sufficiente. Nella pagina dei commenti, Alan Blinder, professore di economia a Princeton, denunciava ieri con parole durissime le pressioni e i ricatti dell’amministrazione Trump contro le università. Non si tratta solo delle già note vicende che hanno contrapposto il governo a Harvard e Columbia, con il solito pretesto della lotta contro l’antisemitismo e la difesa del pluralismo e della libertà di espressione dalla censura woke, mentre «è divenuto presto chiaro che il piano del presidente era piegare Columbia e Harvard alla sua volontà». Più recentemente, infatti, la Casa Bianca ha offerto un accordo (sono sicuro che avete già capito qual era il termine in inglese, ma lo preciso lo stesso per i più sbadati: deal, ovviamente) a nove tra le principali università del paese, che promette agevolazioni e sovvenzioni pubbliche, scrive Blinder, in cambio della sottoscrizione di un elenco di cambiamenti nella gestione, molti dei quali giudicati semplicemente «ripugnanti». In sintesi: «Cedi su diversi aspetti della libertà accademica sgraditi al mondo Maga (il movimento trumpiano Make America Great Again, ndr) e probabilmente ti manderemo un assegno». Il Massachusetts Institute of Technology è stato il primo a rispondere e a declinare l’offerta, dicendo che l’accordo «restringerebbe la libertà di espressione e la nostra indipendenza».

Volendo farla lunga, ci sarebbero molti altri dettagli inquietanti, a cominciare dall’idea che a vigilare sul rispetto degli accordi debba essere il Dipartimento della Giustizia guidato da Pam Bondi, già piuttosto impegnata nel perseguire (o forse dovrei dire perseguitare) tutti gli avversari del presidente, ma anche compagni di partito e persino ex membri della sua stessa amministrazione che si siano permessi di criticarlo, o che comunque gli siano antipatici. Penso però di avere reso l’idea.

In febbraio, quando la presidenza Trump aveva mosso appena i suoi primi passi, il Wall Street Journal irrideva la stampa progressista con un editoriale dall’incipit eloquente: «Well, that was fast» (Beh, hanno fatto presto). Il riferimento appena velato era al New York Times e ai suoi articoli sulla crisi costituzionale incipiente. Fossi il direttore del New York Times, oggi pubblicherei un editoriale dal titolo: «Meglio tardi che mai». Forse però anche tra i nostri osservatori sarebbe apprezzabile una maggiore prontezza di riflessi, considerando come Giorgia Meloni e Matteo Salvini facciano a gara nel mostrarsi più trumpiani di Trump, nel ricalcarne le gesta e persino nello scimmiottarne le campagne, tra una maglietta con il volto di Charlie Kirk, sconosciuto al novantanove per cento degli italiani, e una dichiarazione di guerra a una «cultura woke» che nel nostro paese nessuno ha ancora capito cosa sia. Nessuno dei due fa nulla per nascondere quale sia il suo modello, e il loro modello è il più sconcertante esempio di aspirante autocrate abbia mai preso il controllo di una democrazia occidentale.