La vittoria a New York è la riscossa di una sinistra sociale e comunitaria o la replica della vecchia anti-tutto?
11 nov 2025 ilfoglio.it lettura4’
A: Ci risiamo. Ogni volta che una città americana elegge un progressista che parla di casa, sanità, uguaglianza e quartieri, la stampa europea grida al nuovo laboratorio della sinistra mondiale. Mamdani a New York viene descritto come il “nuovo Sanders” con la faccia pulita, come se bastasse un’elezione per dire che la sinistra ha ritrovato se stessa.
B: Non è solo un’elezione, però. E’ la prima volta dopo decenni che a New York vince un candidato che non deve nulla ai grandi donatori né alle macchine del partito. E’ la dimostrazione che si può costruire consenso a partire dai bisogni reali: affitti, trasporti, scuole. Mamdani ha parlato la lingua del lavoro, non quella dei campus.
A: D’accordo, ma il punto è proprio questo: la sua vittoria nasce dalla crisi della sinistra liberal newyorkese, quella dei Bloomberg e degli Adams, ma anche dall’incapacità della sinistra woke di produrre risultati concreti. Se la base popolare sceglie Mamdani è perché non si riconosce più né nell’identitarismo né nel centrismo urbano. Il rischio è che questa “nuova sinistra” resti solo un’altra reazione temporanea.
B: Io la vedo diversamente. Mamdani non è un tribuno, è un amministratore. E’ cresciuto politicamente nei movimenti per l’abitare e contro la violenza di polizia, ma ha imparato che governare significa negoziare, non solo denunciare. E’ il primo segnale di una sinistra americana che vuole vincere, non testimoniare.
A: Ma vincere dove? Nella città più liberal d’America? Non è una prova generale di governo, è una vittoria nella roccaforte naturale dei democratici. E poi, a ben vedere, la sua agenda è più radicale di quella di molti progressisti europei: limitare gli affitti, introdurre una tassa sulle seconde case, rendere pubblici i trasporti. Tutte cose giuste, ma difficili da sostenere in una città già al limite del debito.
B: Eppure la città lo ha votato sapendo questo. Forse perché ha riconosciuto in lui qualcosa che mancava: la coerenza. Mamdani non ha mai usato l’argomento del “meno tasse per tutti” o del “pragmatismo del sindaco manager”. Ha detto che vuole usare il potere per ridurre le disuguaglianze, non per gestirle. E’ un messaggio che in America mancava da Obama.
A: E’ vero, ma il paragone con Obama è pericoloso. Obama era un riformista istituzionale, Mamdani viene da un’altra tradizione: quella del municipalismo militante, più simile a certi esperimenti europei come Ada Colau a Barcellona o i sindaci verdi in Germania. E’ una sinistra di prossimità, comunitaria, ma anche fragile. Quando deve fare i conti con la sicurezza, con la burocrazia, con i poteri reali, si scopre quanto sia difficile tradurre la giustizia sociale in governance.
B: Ma è proprio lì che si gioca la partita. La sinistra del futuro non può essere né quella delle emozioni identitarie né quella del mercato con la coscienza a posto. Se Mamdani riuscirà a governare senza chiudersi nel moralismo o nel tecnicismo, potrebbe diventare il modello di una nuova generazione di progressisti: più radicati nei quartieri che nei talk show.
A: Non nego la speranza, ma resto scettico. Ho visto questo film più volte. Ogni dieci anni spunta un “nuovo inizio della sinistra” – da de Blasio a Corbyn, da Sanders a Iglesias – e ogni volta si trasforma in un esperimento autoconsolatorio. In politica, la vittoria vera non è vincere una città, ma cambiare il linguaggio del paese.
B: Ma è un inizio. E, in questo momento storico, un inizio vale oro. Mandami non è un anti Trump per vocazione, ma per struttura. E’ l’opposto di Trump perché rifiuta l’idea di una politica come guerra culturale permanente. Il suo slogan “New York per tutti” non è solo una formula buonista, è un messaggio economico: redistribuire il potere, non solo il reddito.
A: Però attenzione: ogni volta che la sinistra si definisce “anti Trump”, finisce per parlare la lingua di Trump, quella del nemico. E’ la trappola identitaria dell’antitrumpismo. Mamdani ha vinto quando ha smesso di essere un “contro” e ha cominciato a dire “per cosa” voleva governare. Se la sua sinistra resterà in quella direzione, bene; se tornerà a definirsi per opposizione, è destinata alla stessa irrilevanza di sempre.
B: Ma anche la sinistra europea ha lo stesso problema: la paura di sembrare troppo anti qualcosa. Invece, l’antitrumpismo può essere un valore se diventa un codice di governo, non di indignazione. Non significa gridare “fascismo!”, ma costruire istituzioni che rendano impossibile il fascismo.
A: Quindi tu dici che è un modello vincente?
B: Dico che è un laboratorio. La sinistra, oggi, deve tornare a essere un mestiere, non una postura. E New York, per la sua densità di problemi e di contraddizioni, è il luogo ideale per testare una nuova grammatica progressista: meno hashtag, più risultati.
A: Eppure resta il dubbio: una sinistra che vince solo nelle metropoli non è una sinistra vincente, è una sinistra di minoranza felice. Se non parla ai lavoratori della Pennsylvania come parla ai baristi di Brooklyn, la sua vittoria resta estetica, non politica.
B: Forse. Ma ogni cambiamento serio comincia dalle città. Le idee di Roosevelt e di Johnson nacquero nei laboratori urbani. Se Mamdani riuscirà a trasformare New York in un luogo dove la sinistra governa senza scusarsi, avremo almeno un punto da cui ripartire.
A: E se fallirà, torneremo a dire che “non è tempo per la sinistra”.
B: O forse capiremo che il problema non era il tempo, ma il modo.