Politica sott’odio. Da Varoufakis a Renzi, da Salvini a Berlusconi.

Categoria: Italia

Essere bersaglio di rancori e inimicizie può dispiacere ma aiuta a raccogliere voti

di Stefano Di Michele | 30 Aprile 2015 ore 13:01 Foglio

 “L’odio è un liquore prezioso, un veleno più caro di quello dei Borgia; perché è fatto con il nostro sangue, la nostra salute, il nostro sonno e due terzi del nostro amore. Bisogna esserne avari”

Charles Baudelaire

L’odio va dosato, come il sale in cucina: q. b. Né troppo – cosa siamo: incappucciati del KKK, naziskin da stadio, antagonisti da piazza(ta)? – né troppo poco. L’assenza di odio sarebbe auspicabile, ma l’assenza completa di odio, a parte rari e sempre edificanti casi, è difficile. Chi più chi meno, tutti tendiamo verso il Puffo Brontolone: “Io odio…”; ognuno di noi il suo bozzolo d’odio conserva, chiunque un dettagliato elenco potrebbe fornire. Segretamente, a volte. Ma non sempre. “E’ più facile di quanto si creda odiarsi”, spiegava bene il povero e sapiente curato di Bernanos. “La grazia è dimenticare”. Essendo perciò questione di grazia, non è questione troppo terrena. Meno ancora, questione politica. Là dove l’odio si accende – e dove l’odio è componente essenziale della stessa attività politica. Si dirà: no, per carità, ci mancherebbe, che brutta cosa, che pessima idea… Si dirà, ma mica è vero. La verità l’ha in qualche modo rivelata qualche giorno fa quella sorta di rock star continentale del ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis (peraltro citando quel gran democratico, e icona di ogni altro democratico, del presidente americano Franklin Delano Roosevelt: uno che ci ha dato il bene della liberazione da svastiche e affini): “Sono unanimi nel loro odio nei miei confronti e io sono lieto del loro odio”. Ecco: lieto, quasi come il Cirano cantato da Francesco Guccini: “Non me ne frega niente se anch’io sono sbagliato / spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato” (peraltro, è finito Varoufakis preso a bicchierate, in un ristorante di Atene, da ribollenti anarchici ellenici, mica dalla teutonica Merkel). A un politico, una certa quantità d’odio nei suoi confronti è necessaria – non essendo un politico, disgraziatamente, né Papa Francesco né il Mahatma Gandhi né il Buddha della Misericordia, anzi spesso appena appena situato dalle parti del limite della decenza. Poi, l’odio che si prova, e quello che si suscita, si può esprimere in modo diverso: magari sbracando in televisione, urlando e sudando, peli nel naso a vista e brutti denti gialli in primo piano, oppure con la classe di un Benjamin Disraeli che a una domanda sulla differenza tra sfortuna e calamità con arguzia spiegò: “Se Gladstone cadesse nel Tamigi, sarebbe una sfortuna. E se qualcuno lo tirasse fuori sarebbe, credo, una calamità”.

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Del resto, quasi sempre meglio diffidare dei politici che fanno sfoggio del proprio dilagante amore per il genere umano, della tendenza a condurre le masse verso la perferzione amorosa, della carezze sparse a piene mani sulle capocce dei bimbi: le meglio carogne di dittatori si sono viste sollevare al cielo bimbine con mazzi di fiori ondeggianti tra le dita. (Persino il Cav., di suo certo più portato alla bandana che alle marce militari, democratico per convinzione e magari per distrazione, se ne uscì una volta con il raccapricciante e sfarfalleggiante Partito dell’Amore). Spesso, non c’è esercizio tendente al bene che non finisca col tracimare, come fogna troppo intasata, nel moralismo (cosa diversa, cosa persino opposta alla moralità) – e il moralista è quello che meglio degli altri sempre si pensa, quello che l’assenza di coscienza agli altri imputa, quello che nel dubbio altrui solo viltà vede rispetto al proprio coraggio. Sicuro di avere per ognuno la soluzione per la salvezza di anima e coscienza, sulla sorte del corpo (sempre altrui) volentieri sorvola: ovviamente per il bene o per la razza o per la giustizia o per il popolo o per qualunque altra cazzata che la convenienza del momento sottopone. Labile, il confine tra odio e intelligenza. Certo, trattasi di sentimento da manovrare con accortezza – da un politico di perfetto cinismo questo passaggio si esige: dall’odio che si assume, che converge su di sé, al vittimismo da ostentare in pubblico. Come spiegava con la sua famosa battuta lo storico americano Henry Adams, “la politica, nella pratica, quali che siano le idee che professa, è sempre l’organizzazione sistematica dell’odio”. Perché poi, come può esistere la politica se un nemico non c’è, se un nemico non crei? Che farebbero, per dire, gli impetuosi grillini? L’odio lega all’avversario persino più un sentimento amoroso (è esattamente questa “la trappola dell’odio”, spiegava Milan Kundera) o di disciplina o di soggezione – e infatti, una volta svanito colui che è l’origine del pessimo sentimento, hanno costoro facce spaurite, smarrite, in affanno, come se l’orizzonte abituale non ci fosse più: leoni finiti dalla savana sui ghiacci polari, cocorite variopinte spennacchiate, lupi spelacchiati senza più ovili da assaltare.

Tutto è nella qualità e nella quantità dell’odio (pur se parola bandita, pur se parola impronunciabile, pur se parola con tratti di oscenità). Pure i notissimi, sempre lodati, sempre evocati, padri della patria, in odioso cagnesco stavano – e Togliatti non annunciò forse: “Voglio comprarmi un paio di scarponi chiodati per dare un calcio nel sedere a De Gasperi”? L’odio dà una specie di (triste) identità – può essere quello abissale e malefico da croce uncinata o da terroristi nell’ombra o quello feroce e stupido da ultrà allo stadio, “odio odio / odio odio odio / celerino assassino / apri il fuoco su di noi… non sono scarafaggi / ma son carabinieri / la disoccupazione / ti ha dato un bel mestiere / mestiere di merda carabiniere”. La politica, senza avere nulla (non esageriamo: troppo, diciamo) da spartire con roba del genere – e sfrondata del barocco, della messa in scena, delle meglio intenzioni proclamate a favore di telecamere – è pratica gestione di pulsioni mica sempre onorevoli. Il nemico che ti odia ti può dare molto: identità, ragione sociale,  terreno di lotta. L’odio che uno sente riversarsi addosso produce, assieme, umanissima paura (ci può sempre essere, dietro l’angolo, l’esaltato che stringe tra le mani un duomo di pietra, quello che assalta il sindacalista che ha “tradito”, quelli che prendono a calci la macchina del ministro) e adrenalina. “I giorni dell’odio” – così hanno avuto per titolo, come se fosse cosa normale, certe serate televisive dedicate allo scontro nel Pd. E in effetti, parole grosse scorrevano e scorrono, eccessive, da petto gonfio, da causa ultima – “vulnus terribile”, “il premier gioca con la democrazia”, “violenza inaccettabile”, la cara libertà sempre pericolante, con le sacrali chiappe esposte.

Però una cosa è indubbia: Renzi, in questo scontro così feroce dentro il suo partito, col segretario innalzato al rango di nemico Numero Uno, ha visto rafforzare la sua figura, e in ultimo perciò la sua forza (lo stesso gli è successo nei giorni, non meno sanguinosi, della rottamazione). L’odio che si è intravisto, e l’odio ricambiato – poi certo verrà derubricato a dissenso, a lotta ultima e nobile in difesa della meglio causa – ha reso più nitidi forme e colori, ha finito col rendere smaglianti le figure: il franare dei dissidenti e  “l’uomo forte da solo al comando” con la sua missione portata a compimento (brutta, di merda, chi mette di mezzo le leggi mussoliniane, chi quelle degasperiane: ma queste restano opinioni, solo postille al copione). I pupazzi a testa in giù dello stesso Renzi, di Salvini e di Fassino – sempre una pompa di benzina da rivendicare, con uso di spray su ampia murata bianca: “A piazzale Loreto c’è ancora posto!” – sono perfetta testimonianza sia dell’odio a livello belluino, sia di come l’effetto pratico nel suo contrario si muta: avendo, gli odiatori sagomati, aggiunto ancora più smalto alle figure metaforicamente dondolanti accanto al duce e alla Petacci. Come il rame razziato dalle bande dell’Est qua e là sui binari ferroviari, l’odio si rivela alla fine il filo nascosto, ma persino più prezioso, della pratica politica. Una sorta di polline che al primo vento passa dall’uno all’altro – e di solito nell’altro un fronte della barricata sempre vede “il somaro dalle gambe a ìcchese” (così l’eterno Mascellone per l’immenso Gadda, il quel fenomenale libro di altissimo, sacrosantissimo odio e di meravigliosa, bellissima scrittura che è “Eros e Priapo”), “di dolore in dolore, di rabbia in rabbia, di ejja in ejja, di tamburo in tamburo”, dondolante da immaginario balcone. E tale fu Craxi in stivaloni neri effigiato, Bettino/Benito, ahi ahi ahi; tale fu il Berlusca, al massimo col rialzo der calzolaio ma che nello stivalone doveva stare come il gatto della favola; così ora Renzi, dai coriandoli quaresimali alla sua sinistra come dai rimasugli di ciò che resta alla sua destra preso per duce/ducetto/ducione, “fascismo renziano” (Brunetta in Gramsci’s Version) – quasi meglio Silvio, sospirano quelli a carillon di girotondi ancora caricati; quasi meglio il tremendo Massimo col baffo, dicono gli altri, orbi di comunisti per far compiutamente impressione tra i capannoni della Brianza. E intorno corale da fine del viaggio di vaffanculo, rottinculo, maiali, assassini, parlamento stuprato, beccamorti annuncianti funerali, disgustoso, democrazia accoppata, servi (sempre una servitù da imputare agli altri spunta, sempre), crisantemi in volo persino dal mesto assemblaggio vendoliano.

Pare disdicevole, ma sostanzialmente non troppo dispiacevole, essere decentemente odiati da coloro che mai verranno dalla nostra parte – ma che alla nostra causa possono però contribuire. Un certo odio che, in politica, innalza volendo abbattere. Prendete il caso di Salvini il Ruspista (le ruspe! le ruspe!), che ovunque va trova pomodori e uova, insulti, “el negher, oh Signur!”, zingarate a suo disdoro e scalmanati da centro sociale –  ogni volta una ressa e una pena, e ogni volta lui ne esce trionfatore, pure quando non parla, anzi: più ancora quando non parla. E’ la sua perfetta campagna elettorale – e chissà quanti in suo soccorso vorrebbero spingersi, dicendosi: è odiato da quelli che io odio, il padano dal petto non troppo palestrato. (Scrive serafico il Manifesto: “Salvini, l’odio calcolato” – così da fraintendere, tra i compagni, qual è l’odio a fine tafferuglio più fruttifero). L’odio come appiglio, come scala dove inerpicarsi per salire sopra le teste di chi contesta – seppur da Machiavelli al Principe suo sconsigliato, “debbe non di manco el principe farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che fugga l’odio” (cap. XVII), ma son quelli machiavellismi per giorni migliori, ora basta non passare (troppo) per odiatore, piuttosto per l’essere odiato (con studiata strategia), per procurarsi così consenso e soccorso.

Il Cav., che di ognuno fu maestro – spregiatori al palasport e scodinzolanti sul suo pianerottolo – molta della sua fortuna su questo sentimento (io l’amore, loro solo l’odio) con gran fortuna costruì – quasi un perfetto “carciofino sott’odio”, a voler prendere le parole da Leo Longanesi. D’ogni sorta, gliene dicevano (e dicono), e lui ricambiava con gli interessi, “questi giudici sono doppiamente matti!”, “per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato”, “coglioni” quelli a sinistra – e però agnello tra i lupi si mostrava (intervista a Massimo Giannini, Repubblica 20 aprile 2001: “La sinistra fomenta l’odio, adesso mi sento in pericolo”). E persino pregevole manufatto editoriale, da tale deprecabile sentimento (dittatorello, immorale, rozzo, pagliaccio, portasfiga, volgare, folle, vigliacco), fu cavato e pubblicato (“Berlusconi ti odio”, a cura di Luca D’Alessandro, oggi deputato, “le offese della Sinistra al Premier pubblicate dall’agenzia Ansa”: così, a consacrazione di accreditata e credibile fonte).

E’ sempre andato forte, l’odio, in Italia. Al bar, nel condominio, in famiglia (“Famiglie, vi odio!”, il grido di Gide, si suppone a ragionata difesa: Oltralpe e qui), negli stadi (e come si è visto ultimamente, anche negli spogliatoi), nelle piazze, in ufficio, sull’autobus, in macchina… Nelle canzoni politiche – prima che si arrivasse alle smorte cantate attuali (e come al solito, il primo fu il Cav., “un cuore grande che / sincero e libero / batte forte per teeeeeeee!!!!!!!”), dal dopoguerra (“E se la polizia ’n ce lascia pèrde / e se la polizia ’n ce lascia in pace / risponderemo sulle barricate / piombo con piombo”) agli anni di Sessanta (“Agnelli, Pirelli, Restivo, Colombo / non più parole ma pioggia di piombo!”, così i virgulti di Pot Op) ai settimanali scontri di piazza dei più svariati antagonisti a mestiere provato di antagonismo a tutto, quelli che “ogni giorno una barricata!”, sai che palle e sai che sballo! Somiglia molto, la politica italiana, al paese reale – dondolò un cappio, dentro l’aula di Montecitorio, come quello evocato in tanti collegamenti a tutto schermo dalle più indignate piazze italiane. Poi, in certe fasi quest’ammasso di diluisce, in altre si ricompatta e rotola a valle (“Jukebox dell’odio”, ebbero modo i renziani di chiamare i sorgenti grillini). Dice bene il Papa, dice bene il cardinal Bagnasco, dice bene il presidente Grasso, dice bene il presidente Mattarella, dicono bene tutti, tutti quelli che dicono di accantonare l’odio. Che tossico è di sicuro, e ognuno spesso e volentieri la dose bastevole (q. b.) supera – ma la sua buona produttività (sennò meglio l’amore, come diceva Karl Kraus) in politica ne farà ancora per molto un prodotto di largo uso. Anche perché la politica ha bisogno delle masse – e le masse amano molto qualcosa da detestare e su cui marciare. E infatti, meglio di tanti politologi, la sindrome l’ha spiegata bene il più grande scrittore di horror, Stephen King: “Forse è solo lo spirito della massa. Dare addosso all’individuo”. E così l’odio avrà ancora lunghissima vita.