Ecco la vera scissione del Pd renziano. Una scissione finta e una invece vera.

Categoria: Italia

Se il Pd fosse un partito normale, alla fine di questo percorso legato all’approvazione della legge elettorale, la minoranza del Pd, che non ha dato la fiducia al governo guidato dal segretario del suo stesso partito, dovrebbe prendere atto che c’è qualcosa che non funziona, non in Renzi ma nella stessa minoranza

di Claudio Cerasa | 03 Maggio 2015

 Problema: come si fa a rimanere all’interno di un partito di cui non si condividono le riforme che il segretario (il segretario, ricordiamo, non solo il premier) considera più importanti (legge elettorale, riforma del lavoro) e di cui si evidenzia la sua totale mutazione genetica al punto tale da non votare una riforma che ha avuto il sì della direzione del partito di cui si fa parte e dei gruppi parlamentari di cui si fa parte? Se il Pd fosse un partito normale, appunto, alla fine di questo percorso, stasera, una volta ottenuto il sì definitivo sull’Italicum, tutti i campioni della minoranza del Pd dovrebbero chiedere a Nichi Vendola di fargli spazio nel suo ottimo partito e di costruire insieme la navvativa della nuova opposizione.

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Non succederà nulla di tutto questo, invece, e se non succederà nulla di tutto questo la ragione vera è che il dissenso profondo manifestato di fronte alle riforme renziane è un dissenso che riguarda la forma più che la sostanza, e coincide con il tentativo disperato della minoranza del Pd di ricostruire una propria dimensione culturale, che al momento è inesistente. E non mettendo in campo una proposta ma mettendo in campo una semplice protesta. Non ci sarà nessuna scissione, in realtà, perché anche Pier Luigi Bersani, Enrico Letta, Roberto Speranza, sanno perfettamente che il dibattito sulla legge elettorale non è certo una questione di democrazia o non democrazia, di golpe o non golpe, di sfascismo o non sfascismo, ma è (è stato) semplicemente uno scontro tra due scuole di pensiero alternative: tra chi pensa che sia giusto non esagerare con la disintermediazione della politica e tra chi invece pensa sia giusto non esagerare con la presenza di troppi corpi intermedi nell’attività del governo. E non ci sarà nessuna scissione, infine, perché, banalmente, la minoranza del Pd non saprebbe davvero dove sbattere la testa. Dunque andrà tutto liscio senza alcun problema per Renzi? Non proprio.

Lo scenario di una scissione, a livello Parlamentare, potrebbe manifestarsi solo nel momento in cui Matteo Renzi dovesse decidere di rompere le righe e andare a votare, e lì sì che attorno alla volontà di Sergio Mattarella di portare avanti la legislatura fino alla sua scadenza naturale si potrebbero manifestare sorprese, e anche quella parte della minoranza del Pd che oggi ha scelto di votare la fiducia non è detto che non sia disposta a votare la fiducia a un altro governo. Ma se dobbiamo essere sinceri, e allargare in modo più deciso l’inquadratura della nostra cinepresa, la vera scissione che esiste all’interno della galassia del Pd, in questo momento, e di cui prima o poi dovrebbe occuparsi lo stesso Renzi è quella drammatica che si sta andando a comporre tra il Pd nazionale e quello locale.

E il problema qui è forte, vero ed evidente: fino a quando Renzi riuscirà a nascondere, con la forza mediatica del suo Partito della nazione, l’incapacità di rinnovare la sua classe dirigente territoriale? Fino a quando Renzi riuscirà a far finta che, nella pancia del suo partito, sta nascendo un Partito della regione che assomiglia poco al Partito della nazione? Si dirà: ma che ragionamento è? Ci dici che Renzi ha un problema a livello locale quando il Pd ha vinto tutte le ultime elezioni regionali e comunali e quando il Pd si appresta a fare un quasi cappotto anche al prossimo giro delle regionali? L’obiezione ha un suo senso ma lo ha meno se si osserva con occhio non pigro la realtà, se si mettono insieme le varie disavventure con cui il Pd si è ritrovato a fare i conti negli ultimi mesi (anche a livello giudiziario) e se si mettono in fila, per esempio, i nomi con i quali il Partito democratico si presenterà a fine maggio di fronte agli elettori. E non ci vuole molto a capire che il Pd nazionale non ha nulla a che fare con il Pd regionale.

In Puglia, il candidato del Pd è Michele Emiliano, che pur professando simpatia per Renzi è tutto tranne che un esponente della classe dirigente renziana. In Campania, il candidato del Pd è Vincenzo De Luca, che Renzi ha provato fino all’ultimo a sostituire nella corsa alle elezioni nonostante De Luca abbia vinto le primarie. In Umbria, il candidato del Pd è la non renziana Katiuscia Marini, che con Renzi condivide solo il sogno di portare avanti una rivoluzione generazionale a sinistra, ma nulla di più. In Toscana, il candidato del Pd è Enrico Rossi, che sta al renzismo più o meno come il tempismo sta a Ranocchia. In Veneto, il candidato del Pd è Alessandra Moretti, che come l’attuale governatore dell’Emilia Romagna (Bonacini) è diventata renziana in tempi sospetti. Nelle Marche, stessa storia: il candidato è Luca Ceriscioli, ex bersaniano convertito sulla via della Leopolda.

Piccoli esempi che ci portano a essere sempre convinti che la classe dirigente renziana non si vede all’orizzonte. E il fatto che il presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico non sia ancora riuscito a plasmare il partito a sua immagine e somiglianza (tutti i candidati alla regione, se ci fosse un’alternativa a Renzi sosterrebbero l’alternativa, altro che Leopolda) oggi che il vento arriva in poppa non costituisce un problema ma nel momento in cui il vento comincerà a cambiare direzione lo scollamento per Renzi potrebbe invece essere letale. Renzi conosce bene il punto e sa di non poter nascondere ancora a lungo questo problema. Ma sorprendentemente non si preoccupa di risolverlo. Eppure il tema è centrale. E se il trend non cambierà il renzismo rischia di rimanere ostaggio di un Pd che non si riesce a cambiare. Sul territorio, e ovviamente anche in Parlamento.