Quei contestatori anti Expo innamorati del potere e il fantasma del neoliberismo che non c'è

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In effetti, mai gli apparati pubblici sono stati tanto pervasivi (nelle società europee, ad esempio, circa il 50% della ricchezza è sottratta ai privati dal fisco), ma nonostante ciò la nostra società è contestata in quanto iper-liberista

di Carlo Lottieri | 04 Maggio 2015 ore 10:51 Foglio

La storia dell’ultimo mezzo secolo è segnata da un paradosso. Fin dai primi passi della contestazione studentesca, nei campus americani di metà anni Sessanta, periodicamente si assiste al sorgere di movimenti che si ribellano al Sistema. Come l’altro giorno in occasione dell’apertura dell’Expo milanese, a essere messo sotto processo non è però un potere pubblico sempre più oppressivo. Al contrario, i manifestanti rigettano il cosiddetto “pensiero unico liberale” e quel capitalismo “selvaggio” che è il corrispettivo contemporaneo dell’araba fenice: una semplice proiezione mentale, che poco o nulla ha a che fare con la realtà.

In effetti, mai gli apparati pubblici sono stati tanto pervasivi (nelle società europee, ad esempio, circa il 50% della ricchezza è sottratta ai privati dal fisco), ma nonostante ciò la nostra società è contestata in quanto iper-liberista. Se ci si chiede come si sia arrivati a essere tanto ciechi, va ricordato che la realtà è sempre frutto di interpretazioni. In questo senso, è assodato che la cultura prevalente è così avversa al mercato che anche quando l’ultima briciola di libertà sarà stata espropriata da burocrati e governanti, perfino in quel momento vi sarà chi punterà il dito contro il capitalismo. Scuole statizzate e università fuori mercato non possono produrre altro.

A ben guardare, invece, dovremmo prendere atto che i maggiori problemi vengono dallo statalismo socialdemocratico prevalente. Quando protestano contro l’Expo dei mercati e del capitalismo, i contestatori rivelano di essere la quinta colonna di apparati che, nei fatti, vogliono ulteriormente rafforzare.

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A uno Stato che già controlla quasi interamente società ed economia, gli epigoni di Mario Capanna e Rudi Dutschke chiedono di andare oltre: di dilatarsi ancor più e cancellare anche le ultime opportunità – per usare la formula di Robert Nozick – di intrattenere “rapporti capitalistici tra adulti consenzienti”. Sotto una vernice che si vorrebbe libertaria, vi è allora una sostanza ingegneristica, moralistica, repressiva.

La stessa Expo aperta l’altro giorno è la riprova di quanto oggi il libero mercato sia perdente.

La prima esposizione del 1851, a Londra, nasceva in una fase che presto avrebbe portato al venir meno delle barriere commerciali tra Regno Unito e Francia (l’accordo Cobden-Chevallier del gennaio 1860). In quegli anni si trattava di creare occasioni capaci di attrarre merci e persone da ogni angolo del mondo, in modo da scoprire prodotti e mercati nuovi. La novità fu tale che perfino la musica e le arti figurative ne furono segnate, vedendo lo sviluppo di tendenze orientaleggianti. Ma oggi tutto è diverso.

L’Expo del 2015 è primariamente un grande affare di Stato: a base di commesse pubbliche e infrastrutture. Una riprova viene dalla retorica della cosiddetta Carta di Milano, intrisa di un socialismo in qualche modo attualizzato grazie a un linguaggio pauperista ed ecologista, oltre che da ripetuti riferimenti ai teorici dei beni comuni e della cosiddetta “decrescita felice”. Per giunta, nell’età di internet e dei voli low-cost quanti lavorano per servire i consumatori non hanno bisogno di kermesse come quella aperta l’altro giorno, dato che si muovono abitualmente ai quattro angoli della terra allo scopo di sfruttare ogni opportunità imprenditoriale.

Una cosa è pur vera: il declino del capitalismo liberale, soffocato da tassazione e regolazione, si accompagna con una trasformazione profonda del mestiere dell’imprenditore. Se in passato guidare un’azienda consisteva essenzialmente nel mettersi al servizio del pubblico, oggi chi è alla testa di un’attività privata ha sempre più la possibilità di fare soldi grazie a entrature politiche e approfittando della redistribuzione delle risorse che l’apparato pubblico sottrae ai privati. Il declino del mercato, allora, si manifesta quale restringimento dei suoi spazi d’azione (l’economia diventa pianificazione e regolamentazione), ma anche come partecipazione a logiche parassitarie.

Se fossero davvero contro il “sistema”, i manifestanti dovrebbero protestare contro la tassazione da rapina e contro una legislazione sempre più oppressiva. Dovrebbero contestare lo statalismo “selvaggio” dei nostri giorni, chiedendo più mercato. E se volessero interpretare una protesta estrema e una rivolta morale, dovrebbero al limite battersi per un capitalismo davvero tale: per la fine della costrizione statale e di ogni intreccio tra politica e affari.

Oggi sono i migliori alleati del Potere e neppure lo sanno.