Profughi, con la “rotta balcanica” il Friuli Venezia Giulia è la Lampedusa del Nord

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In una regione con 1,2 milioni di abitanti sono ospitati 2mila richiedenti asilo: uno ogni 600 residenti, la percentuale più alta dell'Italia settentrionale.

E' il risultato del flusso continuo di arrivi via terra, da Afghanistan e Pakistan. Il Viminale però pretende che i Comuni si facciano carico anche di una quota di migranti sbarcati in Sicilia. Il sindaco di Udine: "Per non lasciarli per strada ho aperto una tendopoli dentro una caserma". E il prefetto chiede di "accoglierli nelle case", ricalcando il modello già adottato a Trieste

di Chiara Brusini | 11 maggio 2015 Il Fatto

   

Per la governatrice del Friuli Venezia Giulia Deborah Serracchiani, vicesegretario del Pd, “il tetto è stato raggiunto”: la regione non può più accogliere nessuno. Intanto il sindaco di Udine Furio Honsell (centrosinistra) chiede a gran voce che i richiedenti asilo vengano “fermati alla frontiera“. E si scontra a distanza con Renato Carlantoni, suo omologo di Tarvisio – “la frontiera”, appunto – diventato a sua volta famoso in quanto promotore di una raccolta firme contro i profughi. Mentre a Gorizia il primo cittadino Ettore Romoli, autore lo scorso dicembre di un’ordinanza anti bivacco per vietare a chi non aveva alloggio di dormire nei parchi, ha “risolto” il problema facendo trasferire circa 200 migranti in Lombardia e Abruzzo. Nelle settimane in cui il Viminale chiede ai prefetti di trovare migliaia di nuovi posti per i migranti in arrivo via mare, anche alla frontiera nord orientale dell’Italia il sistema dell’accoglienza non regge più. In una regione che conta 1,2 milioni di abitanti su un territorio di meno di 8mila chilometri quadrati sono ospitati 2mila richiedenti asilo, in crescita di giorno in giorno. Se li si confronta con la popolazione la percentuale che ne viene fuori è la più elevata del Nord Italia e la quinta della Penisola: uno ogni 600 abitanti. Basti dire che in Veneto e Lombardia sono rispettivamente uno ogni 1.700 e uno ogni 1.600 cittadini.

Udine capolinea della “rotta balcanica” – Qui il problema non sono i barconi, ma il flusso continuo di richiedenti asilo che raggiunge il confine via terra, lungo la cosiddetta “rotta balcanica“: quella che parte dall’Afghanistan e dal Pakistan e attraversando Iran, Turchia, Macedonia, Bulgaria, Serbia, Ungheria e Austria conduce a Tarvisio. La “Lampedusa del Nord“, secondo la Lega. Attraversata la frontiera – a piedi, nascosti nei camion o nei portabagagli delle auto dei passeur – vengono intercettati da Polizia o Carabinieri. Destinazione finale la questura di Udine, per l’identificazione e la presentazione della domanda di asilo o di protezione umanitaria che verrà poi esaminata dalla Commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato basata a Gorizia. Una delle 40 in Italia e l’unica del Triveneto fino a febbraio, quando sono state attivate quella di Verona e la sezione di Padova. Per l’esame della richiesta, che formalmente dovrebbe concludersi in 60 giorni, ci vogliono 6-8 mesi, ma chi riceve un diniego quasi sempre fa ricorso e ne attende l’esito, per cui i tempi si allungano facilmente fino a un anno e mezzo. Durante il quale la Penisola deve provvedere alla loro assistenza.

L’accoglienza a macchia di leopardo e i sindaci che fanno muro - I richiedenti asilo, privi di documenti, non possono lavorare. Se non gratis, per servizi di pubblica utilità, come già accade in alcuni Comuni. Sta ai prefetti trovare loro una sistemazione, facendo leva “in via prioritaria” (come stabilito dal capo del dipartimento Immigrazione Mario Morcone) su convenzioni con i Comuni nell’ambito del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar). Quello che, nei piani del ministero guidato da Angelino Alfano, dovrebbe salire da 20.744 a 40mila posti e diventare la modalità prioritaria di gestione dei profughi. Ma i rappresentanti dell’esecutivo, anche al netto di derive patologiche come il “sistema Odevaine” portato alla luce dall’inchiesta su Mafia Capitale, non hanno appigli per costringere i sindaci recalcitranti a farsi carico dei servizi – dalla fornitura di vitto e alloggio ai “percorsi di inclusione sociale” – previsti dallo Sprar. In più, i sindaci di moltissimi medi e piccoli comuni hanno fatto muro rifiutandosi di accogliere anche poche decine di migranti. Che si concentrano quindi a Udine, Trieste e Gorizia (oltre 500 in ognuna delle tre città) e in misura minora a Pordenone.

Con le procedure di emergenza i profughi finiscono in agriturismo sulle Prealpi – Si fa presto, d’altronde, a parlare di inclusione. Il racconto di un sindaco in prima linea aiuta a capire come funziona nella pratica. “Oggi i posti disponibili nell’ambito dello Sprar non bastano”, racconta esasperato Honsell, ex rettore dell’università di Udine, dal 2008 primo cittadino. “Io devo gestire un flusso di arrivi ininterrotto, devo trovare un letto per quelli che via via si accampano nei giardini davanti alla questura. E’ da un anno e mezzo che lo segnalo al ministero. Nel frattempo ho aperto una tendopoli per un centinaio di persone dentro una caserma, chiedendo la collaborazione di Protezione civile e Croce rossa. Chi strumentalizza tutto questo è rivoltante, che cosa dovrei fare? Lasciarli sotto la pioggia? Il Viminale deve prendere in considerazione il problema: noi non possiamo farci carico anche di altre quote di richiedenti asilo arrivati via mare”. In attesa di una soluzione stabile, i profughi che rientrano nei tetti fissati dal sistema Sprar vivono in appartamenti, mentre i richiedenti asilo del Nord Africa (noti come “i Mare Nostrum“) e gli afghani e pakistani che rientrano nel progetto Aura (Accoglienza Udine Richiedenti Asilo, gestito insieme a Caritas, Centro Balducci e altre associazioni) sono accolti in strutture di ogni tipo, dalle canoniche agli alberghi. E’ usuale il ricorso alle famigerate procedure di emergenza: bandi generici a cui possono partecipare anche associazioni improvvisate e senza competenze. E che spesso hanno come risultato la sistemazione dei profughi in sperduti agriturismi sulle Prealpi bellunesi o in Carnia che diventano prigioni per chi non ha un mezzo di trasporto.

A Gorizia operatori del Cara senza stipendio e migranti “deportati” in Abruzzo – Pesante la situazione di Gorizia, dove fino al 25 aprile alle 280 persone alloggiate nell’ex Cie di Gradisca (chiuso l’anno scorso dopo le rivolte e la morte di un ragazzo marocchino caduto dal tetto ma riaperto con la nuova veste di Cara) si sommavano 150 profughi ospitati nell’ex convento del Nazareno “e un centinaio all’addiaccio da mesi, assistiti da volontari, in attesa di entrare nelle strutture convenzionate”, racconta Andrea Bellavite, fondatore dell’associazione culturale Forum Gorizia. “Poi il sindaco Romoli ha fatto pressioni e ottenuto il permesso di far portare 200 persone in Lombardia e a Teramo”. Occorre aggiungere che il Cara non paga da mesi gli stipendi agli operatori della cooperativa Connecting people, che sono in rivolta contro la prefettura intenzionata a fare un nuovo bando per l’affidamento della gestione.

Il modello Trieste: accoglienza diffusa in appartamenti privati - Fa eccezione Trieste, dove le associazioni che si occupano dell’accoglienza sistemano tutti i profughi in appartamenti presi in affitto da privati cittadini utilizzando i 35 euro al giorno messi a disposizione dal governo. “Non si deve parlare di invasione, né di emergenza”, sostiene Gianfranco Schiavone, membro del consiglio direttivo dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics), che insieme a Caritas assicura l’accoglienza per conto del Comune. “Anzi, il punto è proprio che occorre uscire dalla logica emergenziale e dalla sistemazione in centri di accoglienza elefantiaci (vedi i famigerati Cara, ndr). Bisogna distribuire le presenze sul territorio regionale in modo uniforme e creare un sistema sostenibile nel lungo periodo partendo dal presupposto che la presenza di queste persone è prevedibile e va prevista in una società civile”.

Un modello che piace alla Serracchiani, paladina della cosiddetta “accoglienza diffusa”. Quella nelle case private. “Le affittiamo a prezzi di mercato e in ognuna mettiamo a vivere quattro o cinque persone”, spiega Schiavone. “In città il canone medio, per due stanze più soggiorno e cucina, è di 600 euro“. Vale a dire 4-5 euro al giorno a persona, a fronte dei 35 ricevuti dall’associazione. Il resto va in cibo, abbonamenti ai mezzi pubblici, stipendi del personale e “pocket money” di 2,50 euro a profugo. Di qui la proposta del prefetto di Udine di prendere a modello il capoluogo regionale e mutuarlo anche nelle altre province. Sperando che l’idea di “accogliere in casa” un richiedente asilo in cambio di soldi non si trasformi nell’ennesimo business sulla pelle degli immigrati.