I professionisti dell’anti tutto. C’è la Tav? Si corre. L’Expo? Ragione di vita e di lotta.

Categoria: Italia

 Il Mose? Tutti in laguna! Il Tap? Tutti in Salento! La scuola? Sciopero! Le riforme? Allarme democratico! L’antagonista oggi. Ritratto di una nuova armata

Un antiexpo lancia una molotov verso la polizia durante gli scontri di Milano (foto LaPresse)

di Stefano Di Michele | 21 Maggio 2015 ore 11:07 Foglio

Per sua specifica natura, di solito l’anti è insieme reduce da glorie passate, immaginarie il più delle volte, e in transumanza verso altri orizzonti non meno luminosi. Panato di buone intenzioni e spesso satollo di stratosferico egocentrismo, procede. Di più: marcia. Politicamente: crede sempre di avanzare (avendo, a propria specifica vocazione, la costante sua presenza su “un terreno più avanzato di lotta”). Orizzonti, va da sé, di gloria – che di gloria, si capisce, prima o poi pure lui rivestiranno. E’ in moto perenne, l’anti italico. Fosse un film, sarebbe “Cavalca vaquero!” (1953). Perché l’anti, pure questo si sa, è per sua natura scomodo e pericoloso. Per il Sistema tutto, che tutto all’erta sta, a contrastare il peso gravoso della sua opposizione. Infatti, tipico dell’anti è la lamentazione: hanno paura di quello che dico, eh? non mi fanno parlare per paura, eh? – crede il poveretto in buona fede che il mondo lo tema, il mondo che soltanto lo ignora; non fosse disdoro per la grandissima poetessa, si potrebbe dire che è nella stessa condizione della Dickinson, “questa è la mia lettera al mondo, che non ha mai scritto a me”. Scomodo, pericoloso e purtroppo largamente incompreso (la voce di mammà che risuona nelle orecchie: dai una sistemata alla cameretta!, fatti una lavatrice!, trovati un lavoro!), perciò è per sua natura errante: come il pastore leopardiano, come il cavaliere medievale, come la fantasia foscoliana, come il Buddha col sacco di riso (mutato in smartphone, però: errante ma connesso) appresso. Va, lui va – tirandosi dietro un’approssimativa comprensione del mondo, e una totale favolistica convinzione di averlo benissimo compreso. E passa da un antagonismo all’altro, da una lotta alla successiva, da un nemico a quello che viene dopo. E siccome la generale varietà potrebbe mettere a repentaglio la fragile coerenza, l’anti ha ben chiaro nella sua testa (lì solo: ma la sua testa, per quanto fornita a volte di disponibili meningi, gli basta e gli avanza) il legame profondo tra Sistema e Potere (intesi S&P) che ogni lotta sua mira a scardinare, in una complessione tale al cui confronto un romanzo di Umberto Eco – l’anti ha spesso una sorta di suo personale “Pendolo di Foucault” incorporato – o la teoria katafisica di Dionigi l’Areopagita hanno la linearità e la semplicità di “Quarantaquattro gatto” e “La Peppina fa il caffè”.

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L’anti, nella sua testa, ha tutto chiaro. E’ una sorta di cabalista della piazza, di alchimista dello scontro, di enigmista risolutore della altrui incomprensioni. “Io so” – lui sa: non ha le prove, non ha nemmeno indizi, ma sa, sempre una sorta di tardo pasolinismo di riporto sospeso tra l’adolescenziale e il demenziale. Sa, lui. Adunato, assembleato, tuìttato: sa. L’anti, di solito, vive in una sorta di comune rurale, ma spesso convinto di spaziare per il mondo globale: legge roba che lo conferma nella sua certezza, parla con gente che pensa le sue stesse cose, vive dentro la sfera di vetro dove si racconta e ancora racconta e sempre racconta (la malattia di ogni reducismo: a novant’anni di Vittorio Veneto, a venti dall’ultima occupazione di scuola) l’eroico antagonismo che contro S&P sempre schiera, ché a schiena dritta (e magari tatuata, ché un arabesco Maori ha la sua bella suggestione sul cassintegrato di Termini Imerese) sta. L’anti custodisce la sua memoria negli anni che verranno – e non a caso, anche nelle ultimissime manifestazioni, giovani virgulti e vecchie pantegane di ogni piazza si mischiavano, quelli con l’hashtag, quelli col cappuccio nero, quelli con la bandiera del Che (ancora? ancora, hasta siempre!). Pure quando arriva, dopo decenni, la fase del pentimento, del ripensamento – sì, quanti errori; sì, ma come eravamo giovani e belli e santamente ribelli – e magari del libro di opportune memorie, ecco che languido, con  una sorta di struggimento interiore, il pensiero ancora corre alle dita che carezzevoli si posavano sul sampietrino.

L’anti sa. L’anti mai dubita. L’anti ha una sua perennità, un suo posizionamento di principio: bella cosa, fino a quando l’ossificazione non muta cotanta beltà dell’azione in funzione di statico paracarro – che sempre e comunque, però, come perenne elemento della perenne sua bellissima utopia, verrà spacciato. Siamo tutti anti qualcosa – e spesso pure saggiamente. Ma in Italia, quella che era una decente posizione – per esempio, se c’è il fascismo non è male essere antifascisti – si è mutata in patologia. E’ tutto un allarme, un denunciare, un affanno rabbioso che Aristofane riconosceva nei politici che correvano ad accattare il più facile consenso popolare: “Voce orrenda, alito cattivo e modi volgari”. Ma lo stesso, l’anti odierno raramente mira a convincere gli altri (il popolo sempre evocato, le masse sempre scomodate, la gente sempre sollecitata: popolo, masse e gente poi incomprensibilmente dall’altra parte), piuttosto ad alzar bandiera, e spesso ad alzare le mani. Chi devasta una città, chi imbratta, chi occupa, chi blocca, chi ti chiude in casa, chi ti lascia dentro i vagoni della metro sotto terra come un sorcio, non chiede di essere solidale con lui – piuttosto di temerlo. L’essere anti ormai non è più personale antipatia, giustificata indignazione, quanto sorta di oscura e professionale occupazione. “Il venti per cento della gente è comunque contraria a qualsiasi cosa”, aveva calcolato Bob Kennedy: dalle nostre parti, forse la percentuale va innalzata. Adesso, la scuola. La riforma di Renzi può essere un colpo di genio o una cagata – il tipino fiorentino può fare sia l’uno che l’altra – ma è possibile che da quarant’anni non ci sia stato ministro (di qualsiasi colore politico, sesso e governo: dalla Falcucci a Berlinguer, dalla Gelmini a De Mauro, da Ruberti a Giannini) che subdolamente non abbia mirato a massacrare la scuola pubblica, a favorire il padronato, a bastonare alunni e professori? Mostri famelici che nemmeno nell’isola del dottor Moreau? E’ un allarme vero, tale da richiedere il risolutivo intervento di almeno un esorcista a viale Trastevere, o una paturnia per la solita sceneggiata annuale? Il felice assemblaggio tra prof. e alunni (visti, in passato, marciare compatti pischelli destinati alla facile precarizzazione e baronie universitarie in gran spolvero dai giorni della riforma Gentile), pensionati barricadieri e diciassettenni fischiettanti, il ritmare dei soliti slogan, “questa riforma ci nega i diritti”, “ridateci la scuola”, “siamo un fiume in piena e non ci fermeremo”, fino al più temerario “la Grecia è un esempio nella lotta all’austerity”, capirai – l’eterno ritorno del sempre tutto uguale.

L’anti ha una serie infinita di opzioni. C’è la Tav? Corre – e felicissimi scrittori lisciano il pelo alla novella resistenza. C’è l’Expo? Diventa ragione di vita e di lotta – e vocianti rapper porgono sostegno ai marciatori, “un altro mondo possibile”, un altro slogan sarebbe auspicabile. C’è il Mose? Tutti in laguna! C’è il Tap? Rotta verso il Salento! C’è il Muos in Sicilia? Trinacria, arriviamo a salvarti! La scuola? Sciopero! Le riforme? Massimo allarme democratico (varianti: 1. democrazia in pericolo; 2. Costituzione tradita; 3. rischio fascismo; 3/a. un uomo solo al comando)! Il Jobs act? Schiavismo alle porte! Le volenterose amichette del Cav.? Corpo della donna offesa (così da ipotecare, con la propria volontà, proprio il corpo altrui: fosse smerciato, fosse esibito, fosse liberato)! Le buone ragioni e le pessime si mischiano insieme, si confondo, si chiudono a testuggine – ché la vocazione più deletaria di certe gruppi di anti è sconvolgere piuttosto che coinvolgere (e infatti, un solo consenso al No Expo è arrivato, dopo le eroiche due giornate milanese, tra muri imbrattati prima e poliziotti bastonati dopo?). L’anti non ha dubbi. Mai: né sulla buona causa né sul valore del suo offrirsi a essa. Se il mondo non capisce, il mondo capirà (non ha molta pazienza col mondo, di solito, l’anti).

La possibilità di essere anti qualcosa è infinita. Spesso, l’anti di valore ne assomma quattro o cinque insieme – secondo l’indicazione di Totò, “abbondandis in abbondandum”: si è antifascisti, ma pure antiberlusconi, conseguentemente antirenziani, va da sé antirazzisti, ecc. ecc., mai sguarnirsi della possibilità di una Grande Causa, così da avere l’impressione di una Grande Lotta. Come quelli che avevano a ragione sociale l’anticomunismo a comunismo disperso e a comunisti liquefatti, quelli che fanno gli antitasse spesso temendo paranoicamente che il sudato soldo possa finire al negro o allo zingaro, la professione dell’anticasta: ormai sceneggiatura genere “Beautiful”, ove la logica si perde e i morti tornano miracolosamente in vita, in un continuo buffo rilancio a far mostra che la moralità mia a nessuno è seconda. L’anti è spesso egocentrico (io so, e voi non sapete un cazzo!), e nel labirinto della modernità solo si crede fornito del filo che lo condurrà fuori – e fuori condurrà pure le refrattarie masse: a calci nel culo, se dovesse servire. L’anti di solito è irritante: nel suo modello basico ciarliero e ripetitivo, di poche semplici essenziali parole fornito (come i romanzi rosa per parrucchiere di quartiere: ma ce ne sono di quelle, viste in televisione, che mentre fanno lo shampoo recitano persino Baudelaire). Non ti convince, al massimo quando gli gira bene ti esorta, come il monaco Zenone dell’Armata Brancaleone, “sarai mondo se monderai lo mondo!”: così è tutto un artigliarvi la coscienza (se ne avete una), un denunciate la viltà (vostra, si capisce), un esortare al coraggio (ovviamente prendendo il loro ad esempio: “siamo un fiume che non si ferma”). L’anti, di solito, sfugge i fatti concreti, le cifre, il mesto dare e avere: vola alto sulle metafore, s’inerpica sulle vette dell’assoluto, non gli interessa migliorare quanto piuttosto salvare. Come se avesse ricevuto un crisma, una rivelazione, un’illuminazione, tronfio va all’assalto.

Io so. L’anti sa. E perciò, con assoluta certezza sa che il Potere ha mandato in piazza la polizia per reprimere la sua feconda e rivoluzionaria lotta; e nella versione hard, teppistica, seriamente convinto che la sua bottiglia molotov tuteli il popolo e che il manganello dello sbirro lavori per l’annientamento. L’anti ha il disprezzo facile. L’anti è assolutamente convinto, pur sconosciuto nel suo stesso caseggiato, di essere al centro delle mire del Sistema – che s’ingegna, ma a lui non la si fa!, per distruggerlo e silenziarlo. L’anti ha bisogno, essendo poi di scarsissima fantasia, del nemico eccezionale da poter elevare all’altezza della sua ansia di redenzione. Silvio Berlusconi è stato, per un ventennio, l’ideale. Un’intera generazione – tra i Palasharp (i giorni  passano, così è diventato maggiorenne pure il piccolo che sul palco salì) e i girotondi e la merda depositata di fronte al portone di via del Plebiscito – un po’ antagonista e un po’ moralista, consumatrice vorace di comici e libri e invettive e film e adunate e sbobinature telefoniche, fino a riceverne una sorta di definitivo imprinting come Cioc e Martina, i pennuti di Lorenz. E insieme una specie di diffuso (inconfessabile) dolore, un malesere che ha catturato i muscoli e la mente dell’anti quando le ombre del tramonto hanno cominciato a calare sulla deprecabile, tricologica dittatura arcoriana: l’anti fatica molto (è sostanzialmente una sorta di Edipo mediatico) a staccarsi dalla figura all’origine del suo (auto)celebrato antagonismo. E perciò insiste, prolunga, intigna, anche quando il buon senso dice che nessuna vigilanza più occorre, e dal presentatàrm! al riposo! si potrebbe passare. Chi è stato antiberlusconiano avrà forse necessità di almeno un altro quarto di secolo, per smaltirne i postumi.

Per fortuna, a sollievo dell’anti h24, è giunto Renzi. Sì è rianimato il Fatto, si è ringalluzzito il Manifesto, si è materializzato Landini, sussultano persino Civati e Fassina, hanno adeguato il copione i comici, già fiorisce la produzione libraria, è ricominciato il ballo (pure il balletto, diciamo) dei coriandoli politici a sinistra, a sinistra della sinistra, a sinistra della sinistra della sinistra: ad andare, a venire, ad adunarsi, a separarsi, a confederarsi, a confrontarsi, a scoglionarsi, a indignarsi, oh quanto indignarsi!, soprattutto indignarsi! – l’anti ha, per sua natura, persistente indignazione pendente dalle labbra, come in certi film la sigaretta da quelle di Jean Gabin. Per l’anti ormai ammosciato e stremato sull’ammosciamento e lo stremo del Berlusconi ultimo, l’apparire salutistico e giovanile dello screanzato fiorentino è stato come il bagno per i vecchi nella vasca di “Coccon”, l’uovo sbattuto mattutino (con cucchiaio di marsala in aggiunta), un piattino di benefiche bacche di Goji. Il sangue comincia a circolare di nuovo, gli slogan hanno fecondo riciclo, l’adrenalina torna a fare il suo mestiere. E’ l’allarme democratico che l’anti soprattutto ama – e lui a presidio sempre di questa democrazia, sempre nell’immaginario suo quasi come la povera “ciociara” della Loren nella crudele scena ridotta. Per il bene degli anti, non fosse altro, un po’ Renzi deve durare – ché poi arriva l’estate, Capalbio alle porte, non ci si può mica mettere alla ricerca di un nemico sotto il solleone.

L’anti è antifascista (il genere hard timbra con la scritta “Antifà” mura e manifesto), un antifascismo di quello che può pure condurre a fischiare la Brigata ebraica il 25 aprile, ché il festevole fervore dell’anti mica sa sempre ben figurarsi il posto delle vittime. E’ un antifascismo di maniera – facile presidio a una carcassa consumata da decenni, è quello fascista l’insulto quasi più comodo, facile, tascabile: ché il fascismo, si sa, è  perenne rischio, mai troppo perennemente denunciato. L’anti è pure antirazzista – e ci mancherebbe. Ma in questo afflato generoso, con la faccina sdegnata che mostra a te quale merda di bianco quasi a caratura lepenista sei, tutto si piglia e niente si spiega e nulla si governa: è mirabile il tamburo del senegale che fa l’ambulante, il tam tam che ci affratella, ma volentieri si concederebbe il trastullo nell’attico di Park Avenue di Leonard Bernstein, come le Black Panther rese immortali da Tom Wolfe. Radical. Chic. Anti.

Ma non bisogna fare l’errore di pensare all’anti solo come creatura capace di nidificare  a sinistra. Pure la destra ha i suoi magnifici bolsi esemplari – che però, più modello tendente all’essenziale anziché all’assoluto, si ritrova più nel genere terra terra. Il momento formativo maggiore è stato quello dell’anticomunismo. Non che sia del tutto privo di motivazioni – anche se l’anticomunista nostrano è quello sempre e per sempre immortalato nelle commedie: borghese da operetta e reazionario da comica, capace di invocare i colonnelli di Monicelli, mica molto di più – ma finito a saltellare nelle piazze al grido di: “Chi-non-salta-comunista-è!” (e gli altri, sull’altra piazza: “Chi-non-salta-Berlusconi-è!”, essendo gli anti, poi, quasi una sorta di ideale fratellanza nel mondo oscuro e minaccioso). Perciò, sempre anti. Solo meno radical. E poco chic.

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