Lezione per Rosy Bindi dall’Antimafia di Chiaromonte e La Torre

Dice Rosy Bindi che trattasi di servizio pubblico per i cittadini – “noi li abbiamo informati”, e certo grato il pensiero dell’elettore corre all’Antimafia, e forse al vigile meneghino di Totò e Peppino,

di Stefano Di Michele | 30 Maggio 2015 ore 06:18

Dice Rosy Bindi che trattasi di servizio pubblico per i cittadini – “noi li abbiamo informati”, e certo grato il pensiero dell’elettore corre all’Antimafia, e forse al vigile meneghino di Totò e Peppino, “per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare?” – e adesso gli svergognati sono così sistemati. Seduto in poltrona, Emanuele Macaluso stringe tra le mani un libretto bianco. Sbuffa, s’indigna, sfoglia qualche pagina. “Io non me la piglio con i giornali, nemmeno col Fatto, fanno il loro mestiere. Poi il popolo sceglie…”. Ma la commissione, ecco, la commissione… Il libro che Macaluso sta (ri)leggendo lo ha scritto molti anni fa un grande predecessore della Bindi, il comunista Gerardo Chiaromonte. Si intitola “I miei anni all’Antimafia, 1988-1992”, prefazione di Giorgio Napolitano. E dalle pagine di quelle antiche memorie, saltano fuori un paio di faccende piuttosto istruttive, proprio rispetto alla scelta che si è compiuta in queste ore.

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Ma prima un’altra storia – che la storia di oggi evoca. Prima di Chiaromonte, anni Settanta. Quando il tribunale di Torino chiese all’Antimafia le schede su Giovanni Gioia, potente democristiano siciliano, ministro fanfaniano. A opporsi, a negare con forza quelle schede con la sua relazione, fu il membro della commissione Cesare Terranova (magistrato, deputato indipendente eletto nelle liste del Pci, ammazzato dalla mafia insieme al maresciallo Mancuso appena tornato in magistratura, nel 1979). I giudici si rivolsero alla Corte costituzionale, la quale diede loro torto. Ma torniamo al libro di Chiaromonte. C’è scritto: “La prima grana che mi trovai ad affrontare fu quella della pubblicazione o meno delle schede nominative…”. Cos’erano queste schede nominative lo spiega adesso il suo amico Macaluso: “La commissione esiste dal ’63. Nei decenni si sono ammucchiati rapporti, relazioni di marescialli, di poliziotti, pure e semplici delazioni e lettere anonime… Tutti rapporti senza contraddittorio”. Cominciò la solita campagna di stampa, al grido: “La santabarbara deve esplodere!”, (soprattutto da parte di Michele Pantaleone, sulle colonne della Stampa). Annotava Chiaromonte: “Anche nel mio partito l’opinione assolutamente prevalente fu quella della pubblicazione. Solo Emanuele Macaluso, vecchio conoscitore della Sicilia e della mafia, scrisse alcuni articoli a difesa dei diritti elementari di tutti i cittadini”. Ricorda Macaluso: “La piaga giustizialista non nasce nel ’92, ma prima. La verità è che si era aperta nel Pci una battaglia. Alcuni insinuavano che io facessi quella campagna contro la pubblicazione perché c’era qualche scheda che mi riguardava…”. Chiaromonte era contrario, i partiti in commissione favorevoli – da Violante a Vitalone, “e a questa cosa si piegò pure il mio amico Giacomo Mancini”. Chiaromonte dovette cedere, “lo criticai, gli dissi: avresti dovuto dimetterti”, così le schede furono pubblicate. Ma nessuna santabarbara saltò: molte velenose insinuazioni, invece, persino su personaggi come Li Causi e La Torre, addirittura sullo stesso Pantaleone.

“In una vecchia scheda un ufficiale dei carabinieri avanzava il sospetto che fosse figlio di Calogero Vizzini, il capomafia. Pantaleone quasi impazzì. Lo trovai un giorno davanti alla Camera che distribuiva volantini per smentire la cosa. Gli dissi: adesso che cavolo vuoi, hai cominciato tu!”. Sorride, al ricordo, Macaluso: “L’unico su cui non c’era mezza insinuazione in quelle schede ero io, proprio io che ero stato pubblicamente indicato come quello che più le temeva”. E che c’entra la Bindi? E’ un’altra cosa. Macaluso scuote la testa, sfoglia le pagine. “Ecco, ecco…”. E’ la relazione di minoranza dell’Antimafia del 1976. Porta le firme di Cesare Terranova e di Pio La Torre (deputato comunista, segretario regionale del Pci, ucciso dalla mafia insieme al suo autista nel 1982, tre anni dopo Terranova). E questo scriveva La Torre, in quella relazione di quarant’anni fa: “Noi il discorso sulla ‘santabarbara’ dell’attuale inchiesta, che avrebbe dovuto far saltare per aria mezzo Parlamento, non l’abbiamo mai condiviso (…). Il nostro compito non è questo. E’ invece quello di fornire al governo e al Parlamento uno spaccato della situazione, una serie precisa di indicazioni per realizzare le riforme economiche, sociali e politiche in senso non mafioso”. E aggiungeva il deputato del Pci considerazioni illuminanti pure per i nostri giorni: “Siamo contrari all’equivoco che si è ingenerato: che cioè la commissione parlamentare fosse una specie di ‘giustiziere del Re’, una sorta di comitato di salute pubblica destinato a far cadere testa su testa”. Così parlò, un nemico vero e vittima reale della mafia. “Terranova e La Torre – rievoca Macaluso – gente che ha lasciato la vita nella battaglia contro la mafia. E lo stesso sapevano definire i compiti della commissione, dicevano che non spettava a essa far cadere testa su testa. Adesso, non si sta procedendo forse testa su testa? I giornali lo possono fare, ma se sei un’istituzione dello stato, come puoi farlo? Non hanno forse rifatto loro le schede, andando a raccattare cose dai casellari giudiziari?”. Tre uomini di sinistra – Chiaromonte, Terranova e La Torre – che combatterono davvero la mafia. Due fino a morirne ammazzati. Ma senza mai permettere che una tragedia si mutasse in spettacolo.

Categoria Italia

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