Rappresentanza sindacale, le ombre e i nodi sulla legge

Categoria: Italia

Landini apre sulla norma. Ma a Cgil, Cisl e Uil non piace la conta degli iscritti. Confindustria scettica. «Così Renzi punta a superare il contratto nazionale».

di Francesco Pacifico | 26 Agosto 2015 Lettera43

Maurizio Landini continua a raccogliere firme - ne ha annunciate già 120 mila - per ottenere una legge sulla rappresentanza sindacale.

Ma tra le parti sociali è l’unico a seguire questa strada.

Nelle ultime ore Cgil, Cisl e Uil da un lato, Confindustria dall’altro, sono sempre più convinte che una normativa per regolare e contare le tessere degli iscritti sia un boomerang.

E finisca per essere il grimaldello con il quale il governo vuole superare il contratto nazionale.

INDICAZIONI RISPETTATE? Anche perché difficilmente l'esecutivo rispetterà le indicazioni dei confederali.

I quali, come ha auspicato Susanna Camusso dalle colonne del Corriere della sera, sperano che Palazzo Chigi dia «soltanto universalità a quello che hanno già definito le parti sociali».

TESTO FIRMATO NEL 2014. Così al centro del contendere torna il Testo unico sulla rappresentanza firmato dai sindacati con gli imprenditori di viale dell’Astronomia il 10 gennaio 2014.

E che nelle prossime settimane dovrebbe essere sottoscritto anche da altre associazioni delle piccole e medie imprese (finora hanno detto sì soltanto le Cooperative, mentre Confcommercio ha accettato di fatto soltanto le parti sulla bilateralità).

MODELLO PUBBLICO NEL PRIVATO. L’intesa prevede di trasferire nel privato il modello applicato nel pubblico, dove gli enti comunicano all’Inps - che le certifica - le deleghe sindacali firmate dai lavoratori e comprovate dalle trattenute in busta paga.

Ma da allora Confindustria lesina le comunicazioni sugli addetti assunti dalle sue imprese, mentre ancora non si sa quale sarà l’ente di certificazione terzo, visto che quello prescelto, il Cnel, è in via di smantellamento.

Se non bastasse, le parti sociali devono fare anche i conti con le intenzioni bellicose del governo.

Seguendo il modello Fiat, Matteo Renzi si è messo in testa di dover superare il contratto nazionale, visto come un ostacolo per aumentare la produttività del sistema Italia.

MOSSA SALARIO MINIMO. Il primo passo è stato annunciare l’introduzione del salario minino, come in America, per disinnescare il potere d’interdizione dei sindacati sui rinnovi.

La cosa è finita un po’ nel dimenticatoio, ma subito Palazzo Chigi ha rilanciato con maggiori sgravi fiscali per le intese di secondo livello, quelle che si firmano a livello aziendale o territoriale e che vengono viste come il fumo negli occhi dalla Cgil.

A breve, con una legge sulla rappresentanza, il premier potrebbe chiudere il cerchio.

AGIBILITÀ LEGATA ALLA FIRMA. In ambienti sindacali rimbalza la notizia che Renzi, sempre seguendo quanto già realizzato da Marchionne in Fiat, leghi il numero delle tessere all’applicazione dell’articolo 19 dello statuto dei lavoratori.

Questa norma nel senso più estensivo - come è già avvenuto con la Fiom a Pomigliano - finisce anche per legare la piena agibilità sindacale alla firma del contratto.

A Palazzo Chigi starebbero studiando il modo di garantire maggiori spazi di manovra (soprattutto sul diritto di sciopero e sulla direzione da far prendere alle trattative sui contratti) proprio alle organizzazioni più rappresentative.

Dolcetta e Damiano confermano le intenzioni del governo

A confermare che c’è una correlazione tra legge sulla rappresentanza e nuove regole dei contratti nazionali sono stati due personaggi che più diversi non potrebbero essere: Stefano Dolcetta, imprenditore della meccanica e vice presidente di Confindustria con delega alle relazioni sindacali, e Cesare Damiano, sindacalista cresciuto in Fiom (nella parte riformista), ex ministro del Welfare e attuale presidente della commissione Lavoro della Camera.

«SÌ A NUOVE REGOLE». Dolcetta, dalle colonne de la Repubblica, ha mandato a dire al governo: «Sarei favorevole a trovare nuove regole sulla rappresentanza nella trattativa tra le parti. Se proprio non è possibile allora è auspicabile che il governo traduca in legge l'accordo che avevamo già firmato con Cgil, Cisl e Uil. Certamente siamo contrari ad abolire il contratto nazionale».

«DIBATTITO CONFUSO». Non ha usato giri di parole neppure Damiano: «Si sta facendo una grande confusione nel dibattito sui contratti nazionali e sulla rappresentanza sindacale. Il contratto ha il compito di fissare gli standard salariali e normativi di base, mentre alla contrattazione aziendale vanno attribuiti maggiori poteri per definire il salario di produttività, l'organizzazione del lavoro e degli orari».

Proprio nella commissione di Damiano giace un proposta di legge per dare una cornice normativa al Testo del 10 gennaio 2014.

CGIL FAVOREVOLE AL TESTO. L’approvazione del testo è vista di buon occhio in Cgil: permetterebbe di spuntare le armi al governo; toglierebbe un argomento al leader della Fiom Landini, aiuterebbe a superare le polemiche scoppiate dopo che la Repubblica ha pubblicato un documento interno di corso d’Italia, secondo il quale il primo sindacato avrebbe perso 700 mila iscritti in un anno.

Un numero che l’organizzazione ha smentito, ammettendo però un calo intorno alle 100 mila tessere.

Cisl e Uil continuano a essere contrarie a una legge

Dal canto loro Cisl e Uil continuano a essere contrarie a una legge su questo versante e sottolineano il rischio che sia in contrasto con l’articolo 39 della Costituzione.

PERICOLO RICORSI. Proprio i precisi paletti del Testo unico sulla rappresentanza potrebbero smentire il comma della stessa disposizione che prevede che «ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge» e quella secondo la quale «i sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».

Risultato? Potrebbero fioccare i ricorsi presentati dalle sigle che decidono di non firmare le intese.

CONFINDUSTRIA SCETTICA. Ancora più scettica su una legge è Confindustria.

La quale, dopo il 10 gennaio del 2014, ha dimostrato in tutti i modi di non volere un modello di calcolo della rappresentanza.

A dispetto di quanto previsto dall’accordo, viale dell’Astronomia non ha reso obbligatorio per le proprie imprese il sistema di certificazione dei lavoratori iscritti al sindacato. Le stesse aziende poi trasmettono, quando lo fanno, in ritardo all’Inps le comunicazioni delle deleghe.

Due le motivazioni alla base di quest’atteggiamento.

IL TIMORE È DOPPIO. Innanzitutto il timore che il sistema delle certificazioni finisca per diventare uno strumento del governo per superare il contratto nazionale.

Che si sa - come dimostra la frattura ancora aperta dopo l’uscita di Fiat da Federmeccanica per lanciare un suo contratto dell’auto - difende le intese nazionali alla stessa stregua della Fiom.

Ma c’è anche chi maligna che, in una fase nella quale le grandi industrie licenziano e riducono il loro perimetro d’azione in Italia, una maggiore trasparenza su questo fronte finisca soltanto per dimostrare che cresce la rappresentanza sindacale nelle piccole e medie imprese.

Il che stravolgerebbe tutti i pesi e contrappesi nelle relazioni industriali italiane.

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