Sindacati autonomi, piccoli ma con gli stessi problemi dei grandi

Categoria: Italia

La galassia di sigle e federazioni fuori da Cgil, Cisl e Uil. «Siamo autonomi», dicono. Ma soffrono anche loro di invecchiamento e poca trasparenza

Lidia Baratta, Linkiesta 29.9.2015

La “Triplice” sindacale, Cgil, Cisl e Uil, è l’avversario. Ma non il “nemico”, assicurano. «A differenza loro, noi non siamo “la cinghia di trasmissione” dei partiti. E facciamo le battaglie solo nell’interesse dei lavoratori, senza alcun fine politico», dice Adamo Bonazzi, segretario generale della Federazione sindacati indipendenti, Fsi, una delle confederazioni di quel mondo di sigle più o meno piccole che gravitano al di fuori del conglomerato Cgil, Cisl e Uil.

Sono sindacati a tutti gli effetti, fanno gli scioperi e scendono in piazza. Ma si (auto)definiscono indipendenti e non vogliono essere confusi con Camusso e colleghi. «I nostri due pilastri sono l’indipendenza dai politici e l’autonomia di pensiero», ripete Bonazzi. Qualche battaglia insieme l’hanno pure fatta con i grossi sindacati, come la manifestazione del 24 settembre scorso contro le carenze del personale alla Asl di Sassari. Ma poi ognuno per la sua strada.

Rispetto ai giganti della rappresentanza sindacale da milioni di tessere (nonostante le perdite degli ultimi anni), loro sono più piccoli. Gli iscritti alla Fsi, che dal congresso del 2002 raduna 26 sigle diverse, sono circa 30mila, di cui 20mila solo nella pubblica amministrazione. Ma anche loro, come gli avversari, sono più forti in alcuni settori. Nel privato, la Fsi è diffusa soprattutto nell’associazionismo e nel sociale, «dove c’è tanto finto volontariato e tanto lavoro sottopagato», dice Bonazzi. Nel pubblico al primo posto c’è la sanità, Asl e ospedali in particolare, seguita da scuola, ministeri e agenzie fiscali. Con una prevalenza nelle amministrazioni locali dello Stato. E se per molti sindacalisti della Triplice la conclusione naturale della carriera è l’approdo in Parlamento, i sindacalisti “indipendenti” sono invece consiglieri e assessori negli enti locali di tutta Italia, senza distinzione di partito, da destra a sinistra. «Siamo autonomi e indipendenti, ma non apolitici», dice Bonazzi.

Come la Fsi, di sindacati che si contrappongono alla Triplice in Italia ce ne sono altri. La Confsal, Confederazione sindacati autonomi lavoratori, è la più grande confederazione autonoma nata dalla fusione di altre due sigle, Snals e Unsa, che conta oltre 1,5 milioni di tesserati, con tanto di sottocategorie. Poi c’à la Cisal, Confederazione italiana sindacati autonomi lavoratori, con oltre un milione di tessere.

La Confedir e la Cida sono invece i sindacati dei quadri e dei dirigenti, la prima sigla concentrata nella pubblica amministrazione, la seconda a più ampio raggio. E poi ci sono la Cub, Confederazione unitaria di base, i Cobas, Confederazione dei comitati di base, e la Usb, Unione sindacale di base, che nella locandina per le prossime elezioni delle Rsu per prima cosa si schiera proprio “contro il monopolio della contrattazione imposto da Cisl, Uil, Cgil e compagnia”. Questi sono i più conosciuti. Senza dimenticare la galassia di piccoli sindacati che radunano singoli mestieri e professioni. Non a caso in Italia il 35% dei lavoratori è iscritto a un sindacato, ben 10 punti sopra la media Ocse.

Se Matteo Renzi non ama fermarsi nella sala verde di Palazzo Chigi con i segretari di Cgil, Cisl e Uil, figuriamoci con i sindacati più piccoli. Sul Jobs Act la Fsi non ha avuto alcuna interlocuzione diretta con il governo («nei corridoi del Parlamento, certo, si parla», dice Bonazzi). Ma la federazione ha un proprio auditore alla Camera e al Senato. Così come rappresentanti della Confsal si trovano nel Cnel e nei comitati Inps.

Il sogno di Renzi

Stando al sogno del sindacato unico del premier, le piccole sigle come quelle che la Fsi ha radunato sono una spina nel fianco. Soprattutto se sono concentrate nel pubblico impiego e nei servizi e con uno sciopero possono paralizzare trasporti e sportelli.

Queste sigle, come ha scritto Dario Di Vico, di fatto duplicano i contratti firmati dai sindacati confederali, spesso senza cambiare una virgola, ma in sede separata. In questo modo, senza quasi mai partecipare al negoziato, i contratti collettivi nazionali gli servono per legittimarsi e avere accesso ad altri istituti e risorse come quelle riservate ai patronati, ai centri di assistenza fiscale o dispensate dagli enti bilaterali.

Anche gli indipendenti, come la Triplice, soffrono però di invecchiamento e perdita di appeal tra i giovani. La fascia più anziana anche tra queste sigle è la più numerosa tra gli iscritti. «La Fsi è molto forte nella sanità, dove però non si assume da dieci anni», commenta Bonazzi. «Unica consolazione sono gli infermieri, che sono più giovani».

E anche a trasparenza, il famoso sindacato come casa di vetro di cui parla Maurizio Landini, gli indipendenti non sono messi così bene. «Da noi non ci sono indennità e stipendi, ma solo rimborsi», dice Bonazzi. «Se la legge cambiasse non avremmo difficoltà a mostrare la nostra rendicontazione. Se l’articolo 39 della Costituzione non è stato attuato fino in fondo è proprio perché riguarda sindacati e partiti insieme, ed essendo i sindacati la famosa cinghia di trasmissione dei partiti, si sono tenuti al riparo tutti». Fatto sta che su nessun sito degli autonomi o indipendenti si trova un bilancio pubblico (finora lo ha fatto solo Maurizio Landini con la Fiom).

E anche i sindacalisti autonomi hanno avuto le loro magagne. E hanno fatto uso e abuso di alcune leggine proprio come gli altri. Come la famosa 564, che permette ai sindacalisti di prendere una sorta di vitalizio anche con un solo mese di contributi. Ne hanno fatto uso oltre 17mila sindacalisti. Tra cui proprio Marco Paolo Nigi, segretario della Confsal, protagonista di un servizio delle Iene per aver incassato prima di andare in pensione uno stipendio mensile da 8mila euro, garantendosi quindi una pensione integrativa da 5mila euro. Per soli 8 mesi di contribuzione.