Può un presidente del tribunale della razza diventare quello della Corte Costituzionale? Sì

Categoria: Italia

Traghettato, senza alcun danno, verso la successiva repubblica, con il determinante aiuto di Palmiro Togliatti (che, non a caso, nel 1946, era ministro di Grazia e giustizia)

 di Pierluigi Magnaschi Italia Oggi 15.10.2015

Se non fosse stato per iniziativa di Nico Pirozzi, che è un valente storico della Shoa, a tutt'oggi, una via di Napoli, sarebbe ancora dedicata al giurista Gaetano Azzariti che, dopo essere stato il vergognoso presidente del Tribunale fascista della razza, riuscì a essere traghettato, senza alcun danno, verso la successiva repubblica, con il determinante aiuto di Palmiro Togliatti (che, non a caso, nel 1946, era ministro di Grazia e giustizia) e che poi, nuotando con disinvoltura fra i marosi della politica, riuscì, nonostante il suo passato politicamente e moralmente inqualificabile, a diventare addirittura presidente della Corte costituzionale. Per l'esattezza, Azzariti fu il secondo presidente della Consulta (dal 1957 al 1961), subito dopo Enrico De Nicola.

La targa che era stata dedicata a Napoli ad Azzariti nel 1970, dopo una battaglia durata anni, sarà finalmente divelta e finirà tra i rifiuti delle cose che non avrebbero mai dovuto succedere e che almeno non meritano di essere pubblicamente onorate. Ed è espressivo di un paese-barzelletta il fatto che si sia dovuto battagliare per anni per riuscire a togliere la targa di una strada dedicata a un infame (errare è umano; perseverare è diabolico).

A questo punto resta ancora il fatto che, nel corridoio di onore dei passati presidenti, nel palazzo romano della Corte costituzionale, ci sia ancora, compiaciuta e impettita nel marmo, la statua di questo Azzariti è un fatto indegno. Chi, motivatamente, non può essere illustrato da una targa stradale, non può neanche restare fra i probi che hanno presieduto la Consulta.

A Napoli, per un'iniziativa commendevole e molto opportuna, al posto della targa stradale dedicata ad Azzariti, ce ne sarà quindi un'altra dedicata a una bambina. Si tratta di Luciana Pacifici, così descritta dalla «Documentazione ebraica contemporanea»: «Luciana Pacifici, figlia di Loris Pacifici e di Elda Procaccia, nata in Italia, a Napoli, il 28 maggio 1943. Arrestata a Cerasomma (Lucca). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuta alla Shoa».

In nessun paese civile del mondo, un presidente del Tribunale della razza avrebbe fatto impunemente la carriera di Azzariti. In Germania, sarebbe stato ricercato e, se acciuffato, sarebbe stato processato e pesantemente condannato e, in ogni caso, sarebbe stato espulso dalla magistratura con disonore. In Italia, invece, Azzariti, non solo è stato mantenuto in carriera come pretore in qualche oscura località di campagna, ma ha addirittura scalato tutta la gerarchia giudiziaria, passando impunemente, con la sorniona disinvoltura di un anguilla, non dal fascismo all'antifascismo (questo l'hanno fatto milioni di italiani) ma dalla presidenza del Tribunale della razza alla presidenza della Corte costituzionale.

Com'è stato possibile questa impunita e umanamente inenarrabile transumanza, sicuramente inconsueta anche in un paese appiccicosamente buonista, pronto ad applicare il motto: «Chi muore giace e chi vive si dà pace»? Essa è avvenuta perché, nel primo dopoguerra, il Pci svolgeva la funzione di fonte battesimale. Chi si iscriveva al Pci e faceva atto di contrizione sul suo passato (per immondo e delinquenziale che esso fosse) veniva immediatamente mondato da ogni suo precedente peccato. Il Pci, allora, non era solo un partito ma anche una sorte di fonte battesimale. Sbiancava più lui di qualsiasi Dixan. Centinaia di migliaia di italiani candeggiarono così il loro passato, con una sola operazione. Fra questi, evidentemente, c'era anche Azzariti.

E costoro, dopo essere stati mondati dal Pci, venivano accettati come immacolati anche dalle altre forze politiche che accettavano il responso del Pci stesso. Per cui, mentre Azzariti, da ex presidente del Tribunale della razza, veniva restituito all'onor del mondo da Palmiro Togliatti, nonostante il pesante fardello che gli gravava sulle spalle, il povero repubblichino analfabeta di vent'anni che si era trovato, per caso, «dall'altra parte», «dalla parte sbagliata» come si dice, e che non si era riconvertito (magari anche perché non sapeva che ci si potesse riconvertire; o come farlo) è stato pesantemente demonizzato per tutto il resto della sua esistenza da coloro che, avendo in tasca la tessera giusta, avevano fatto, in tempo, il salto della quaglia nella direzione opportuna.

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Si potrebbe pensare che questa cancellazione istantanea, unilaterale e totale di tutte le colpe con la semplice applicazione di una tessera del Pci, appartenesse soltanto al caotico e tormentato dopoguerra. Invece è stata una costante della Ditta. Nel 1980, con lo scoppio dello scandalo della loggia massonica P2 di Lucio Gelli, furono trovati, fra gli elenchi degli affiliati, anche i nomi di due giornalisti. Uno era un grandissima firma della stampa, l'altro era una altrettanta grandissima firma del giornalismo, prima radiofonico, e poi televisivo. Il primo, da sempre liberale convinto ed esplicito, non fece atti di contrizione nelle mani del Pci. Il secondo invece chiese perdono a Botteghe Oscure. Il primo, pur essendo massonicamente defilato, venne brutalmente defenestrato da tutti i giornali nei quali lavorava o collaborava. Non solo, trent'anni dopo, il grande giornale sui cui scriveva prima che gli elenchi di Gelli venissero pubblicati, rifiutò (sobillato dalla cellula comunista dei tipografi; dei tipografi!) persino la pubblicità, regolarmente pagata, di un libro da lui scritto. Invece il giornalista che si andò a genuflettere in via delle Botteghe Oscure venne immediatamente riabilitato e fece una carriera sontuosa e senza intoppi.

Questi episodi servono a capire (sperando che non si ripetano) il tartufiamo e l'opportunismo cronico che, da sempre (ma, in particolare, nell'ultimo mezzo secolo), caratterizzano l'Italia. Ma la colpa della funzione giudiziaria (e in ogni caso, di termometro culturale e di costume) che è stata lasciata svolgere dal Pci, non è solo del Pci ma anche (e direi soprattutto) dall'assenza di un ceto in grado di contrastare l'egemonia del Pci, che oltretutto, spesso, come nei casi di cui si è sinora parlato, non stava in piedi. Oggi si parla tanto di bilanciamento dei poteri (ma spesso per semplice opportunismo; solo cioè perché il potere lo hanno preso gli altri).

Ma questo bilanciamento, in Italia, non c'è mai stato (nella società, prima che nelle istituzioni) in quest'ultimo dopoguerra e in particolare nel primo mezzo secolo dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale. E la colpa non è stata solo del Pci che ha occupato quasi tutti i centri del potere (soprattutto nella macchina culturale e pubblica) ma degli altri che glielo hanno consentito. In natura, si sa, non è mai possibile il vuoto. Quando esso si crea, viene subito riempito. In fisica come in politica.

Pierluigi Magnaschi