La Sicilia delle Porsche e delle Ferrari con 23 miliardi che sfuggono al Fisco

Categoria: Italia

L’agenzia regionale Riscossioni incassa solo l’8 per cento. Sequestrate 3.200 auto di lusso. Tra i morosi ci sono sindaci, assessori e parlamentari: in tutto almeno 160 politici.

di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 18.1.2016

Dice Antonino Fiumefreddo: «Davanti a me c’è un muro. Non ho la sensazione che si vogliano cambiare le cose». Venti giorni fa l’assemblea regionale gli ha bocciato a scrutinio segreto la ricapitalizzazione della società di cui è presidente da un anno, Riscossione Sicilia, e che ha il compito di incassare le imposte nell’isola. Sarà una coincidenza, ma è successo dopo la scoperta che 61 deputati regionali su 90 avevano pendenze con il Fisco. E sono soltanto una parte degli almeno 160 politici locali nelle stesse condizioni. Parlamentari, assessori, ex consiglieri, sindaci... C’è di tutto.

Nessuno gli chiedeva i soldi e forse quando è successo qualcuno si è arrabbiato. Non li chiedevano a loro, né a tantissimi altri. Basta dire che dei 5,7 miliardi di ruoli riscuotibili ogni anno nell’isola, si incassano 480 milioni. Paga solo l’8 per cento. Ecco perché Riscossione Sicilia, società regionale omologa di Equitalia, fa l’esattore perennemente in perdita, fino ai 14 milioni di buco del 2014. Per non parlare dei costi.

A Catania, 72 mila euro al mese per l’affitto della sede. A Siracusa, 35 mila. A Ragusa, 30 mila. A Palermo la società possiede un immobile di nove piani, eppure spendeva per affitti mezzo milione l’anno.

Quando Fiumefreddo è arrivato ha trovato 702 dipendenti e una lista di 887 avvocati esterni. Azzerarla non è stato facile. Come accorpare gli uffici provinciali. Quanto all’offensiva contro gli evasori, lasciamo spazio all’immaginazione. Da maggio a dicembre hanno sequestrato 3.200 auto. Ben 1.189 nei soli primi tre mesi: fra queste 33 Ferrari, 119 Porsche, 49 Jaguar, 17 Maserati, 2 Rolls Royce, 3 Cadillac, una Aston Martin e perfino quattro Hummer. Più un jet privato da 8 milioni intestato alla proprietaria di un bar di Catania.

Alla faccia dello stereotipo di regione povera che da sempre marchia la Sicilia, i contribuenti che devono più di 500 mila euro sono 12.979, per un debito di 23,3 miliardi.

A Catania il carico maggiore spetta a una sconosciuta signora (Rosaria Ferlito) che dovrebbe dare a Riscossione Sicilia 85,7 milioni. A Trapani il signor Silvano Lombardo di milioni ne deve 168. A Messina, e nelle altre città siciliane, sono gravemente morose le principali aziende municipalizzate. A Palermo la stessa Regione Siciliana deve al suo esattore 37,8 milioni. Mentre 54,6 milioni dovrebbe pagare Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino a suo tempo condannato per mafia. Seguono numerosi altri debitori per milioni, alcuni deceduti, i cui nomi rimandano a Cosa Nostra: come se quel capitolo di quando le esattorie siciliane erano in mano ai cugini mafiosi Ignazio e Nino Salvo non si fosse mai del tutto chiuso. Fantasie? «Si sottolinea», ha scritto Fiumefreddo al presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone, «come fra i grandi morosi vi siano soggetti a Catania riconducibili alla famiglia mafiosa di Cosa Nostra Santapaola-Ercolano, così come a Palermo diverse aziende sono collegabili alle famiglie più famigerate, con una situazione che diviene incredibile a Trapani dove molti soggetti sono noti alle cronache per essere sospettati di fungere da prestanome al boss Matteo Messina Denaro». È saltato pure fuori che non poche imprese «con pendenze fiscali assai importanti» risultano titolari di contratti d’appalto con pubbliche amministrazioni, nonostante questo sia espressamente vietato dalla legge.

Neppure è raro imbattersi in aziende fallite, senza che Riscossione Sicilia con i suoi 887 avvocati si fosse inserita nel passivo. Come pure in società apparentemente in gran salute, privati cittadini, commercianti. E studi professionali tra i più accreditati. Un esempio? Scorrendo il tabulato di Palermo cade l’occhio sul nome del famoso avvocato Ignazio Messina, ex deputato e segretario dell’Italia dei Valori, partito che fu di Antonio Di Pietro. Gli viene attribuito un debito di 605.431 euro.

Ora è lecito chiedersi se quanto sta accadendo non sia il segno di un preoccupante rigurgito gattopardesco. A novembre, sostiene Fiumefreddo, gli incassi sono saliti del 51 per cento e per la prima volta in dieci anni nel 2015 è stato superato il budget. Evviva. Ma certo con un sistema informativo fermo al 1989 non si fa molta strada. Tanto più se pure la politica rema contro. E non è escluso che Fiumefreddo, avendo forse pestato troppi calli, vada a casa dopo aver portato i libri in tribunale. Senza rimpianti: se questo è il risultato dell’autonomia regionale, meglio che riscuota lo stato centrale.

Sapendo però che solo vincendo la battaglia delle tasse si potrà dire che la Sicilia sta cambiando davvero.

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