Il M5s studia altre alleanze con il Pd per sopravvivere al bipolarismo

Categoria: Locali

La Campania ma non solo. Il dopo Emilia-Romagna dividerà in due il movimento. C’è D’Incà alla guida del partito dell’alleanza

di Valerio Valentini 21.1. 2020 ilfoglio.it –lettura2’

Roma. Chi quella terra la conosce bene, dice che nel possibile ballottaggio che avverrà in Liguria è racchiuso un po’ il senso della crisi del M5s. Trentasettenni entrambe, entrambe con la stessa militanza alle spalle (“Lo stesso numero di ‘badge’ su Rousseau”, discetta chi è avvezzo alla non-lingua del Sacro Blog), Alice Salvatore e Silvia Malivindi, le due sfidanti più accreditate nelle primarie interne online, hanno idee opposte sul da farsi in vista delle regionali di maggio. E infatti la prima, fedelissima del figlio padrone Davide Casaleggio, capogruppo in regione, ci spiega che “il M5s non ha mai fatto alleanze elettorali, casomai si è unito in realtà in un solo caso”, cioè in Umbria, “per un candidato esterno ai partiti, ma in un patto civico. L’alleanza programmatica in chiave elettorale, al contrario, non può accadere perché nessun partito ha le caratteristiche di onestà e attenzione ai cittadini che abbiamo noi”. E invece la Malivindi, avvocato, già consigliere comunale a Ventimiglia, dice al Foglio che “eleggere un candidato presidente non è di per sé un atto che esclude l’apertura a eventuali alleanze. Anzi, potrebbe anche essere che il capo politico chieda poi al nostro portacolori un passo indietro, se ciò servisse ad agevolare il dialogo, purché lo si faccia in nome di una strategia”. E invece? “E invece finora si è agito o sulla base della schizofrenia – dice la Malivindi – o nella logica della ricerca sterile del consenso. Tipo in Umbria, appunto”. Insomma, “le porte restano aperte: io non scarterei l’ipotesi di un’alleanza col Pd. Ma prima vediamo come va in Emilia”.

Che è, grosso modo, anche il senso della “proposta” fatta da Federico D’Incà ai militanti del suo veneto, riuniti sabato in assemblea a Padova. Aspettare l’esito del voto del 26 gennaio, e poi lanciare un voto su Rousseau per decidere cosa fare in vista delle regionali. Il ministro per i Rapporti col Parlamento, d’altronde, cosa fare lo sa già: “Dall’autonomia alle olimpiadi invernali, passando per le sfide ambientali, sui principali dossier che riguardano il Veneto – ha spiegato D’Incà – a Roma stiamo lavorando bene col Pd. Perché non riproporre anche in regione lo stesso schema?”. D’altronde, le proiezioni interne parlano chiaro: con una speranza di consenso non superiore al 4-5 per cento, i grillini rischiano di eleggere solo il candidato presidente. Ma questo non è bastato a placare l’ira di Jacopo Berti, capogruppo a Palazzo Ferro Fini, che ha denunciato il piano di D’Incà come un tentativo d’inciucio. Stessa logica portata avanti da Valeria Ciarambino in Campania. Pure lei capogruppo, pure lei alle prese con una pattuglia parlamentare che vorrebbe, eccome, trovare un’intesa col Pd per il dopo-De Luca, e pure lei, come Berti, consapevole che solo in una corsa solitaria del M5s avrebbe possibilità di essere, di nuovo, candidato presidente. Nel frattempo Roberto Fico tratta col Pd, e Luigi Di Maio non ne vuole sapere.

Il problema, però, sono i numeri. In Emilia si è seguita la via dell’isolazionismo, salvo poi accorgersi dell’inconsistenza del proprio candidato e del rischio di tenuta del governo nazionale in caso di vittoria regalata alla Lega: e così vari parlamentari emiliani stanno invitando gli attivisti a fare voto disgiunto in favore di Stefano Bonaccini (tendenza fotografata peraltro anche dagli ultimi, segreti, sondaggi). Anche in Toscana si è scelto di andare da soli, malgrado i dubbi di tanti. E quanto la scelta sia azzeccata lo dimostrano le simulazioni di voto che tra i maggiorenti locali circolano da qualche giorno: la prospettiva è quella di un solo consigliere eletto a Firenze. Perfino a Carrara, un tempo granaio di voti grillini, con sindaco a cinque stelle eletto nel 2017, si rischia di non eleggere nessuno. Perché il prezzo di non scegliere da che parte stare – di non definire “il perimetro politico in cui ci muoviamo”, come dice il ministro Stefano Patuanelli – sembra essere proprio questo, almeno sui territori: la scomparsa.