Il califfo si avvicina al più antico monastero iracheno dove si prega

Categoria: Religione

ancora in aramaico. . Nell’antico monastero di San Matteo, da milleseicento anni arroccato sulle alture che dominano Mosul, si continua a pregare nella lingua di Cristo

di Matteo Matzuzzi | 03 Giugno 2015 ore 13:09 Foglio

Roma. Nell’antico monastero di San Matteo, da milleseicento anni arroccato sulle alture che dominano Mosul, si continua a pregare nella lingua di Cristo, l’aramaico, mentre s’attende l’arrivo degli sgherri barbuti del califfo Abu Bakr al Baghdadi. Le bandiere nere sono a quattro chilometri di distanza, le si scorge in lontananza. Nel complesso retto dalla chiesa siriaca e fondato nel 361 dall’eremita Matteo, scampato alle persecuzioni di Giuliano l’apostata, sono rimasti solo tre monaci e sei studenti. Erano un migliaio prima che l’Iraq piombasse nel caos. Gli ultimi se ne sono andati quando – era l’estate scorsa – sulle case dei cristiani, venti chilometri più a valle, venivano dipinte le “N” di nazara, nazareno, e ai proprietari legittimi era chiesto di convertirsi all’islam o di sloggiare senza portarsi nulla dietro, neanche i documenti.

ARTICOLI CORRELATI  “L’islam è una religione di guerra”  “Undici cristiani uccisi ogni ora, ma l’occidente è in letargo”.

 Un libro choc “Da qui vediamo i combattimenti e i raid aerei, soprattutto di notte”, ha detto padre Yousif Ibrahim, rettore del monastero. “Sappiamo di essere sulla linea del fronte e siamo consapevoli che in pochi secondi lo Stato islamico potrebbe essere qui”, aggiunge Karaikos, studente che di cercare riparo nelle zone controllate dai curdi non ha la minima intenzione, come pure il suo superiore: “Lascerò l’Iraq solo quando l’ultimo cristiano di questa terra se ne sarà andato”, chiosa padre Ibrahim conversando con il quotidiano Usa Today. Di cristiani nella piana di Ninive ne sono rimasti ben pochi, nessuno a Mosul per la prima volta in duemila anni. “Abbiamo almeno 150 mila cristiani che sono la più grande concentrazione in quel paese, e che adesso sono profughi”, diceva qualche giorno fa alla Radio Vaticana il patriarca di Antiochia dei siri, Ignace Youssif III Younan: “Ancora vivono in carovane, in condizioni molto precarie umanamente. Non si sa se potranno tornare a casa o no. La sfida da affrontare è come possiamo convincerli a rimanere radicati nei paesi dei loro antenati”.

Nel monastero, che per mesi è servito come rifugio per cristiani e yazidi in fuga, hanno già messo in salvo i reperti più preziosi: i libri dell’antica biblioteca sono stati trasferiti a Erbil, così come le reliquie del santo eremita fondatore, portate in un luogo sicuro. Meglio evitare che la tomba faccia la stessa fine toccata a quella del profeta Giona, presa a colpi di piccozza insieme alle statue della Vergine, fatte a pezzi nelle chiese della piana. Solo a marzo, con tanto di corredo fotografico subito pubblicato online, gli attendenti del Califfano avevano proceduto a sventrare un altro antico monastero della regione, quello di Mar Behman a Qaraqosh: croci divelte e rimosse dalla facciata dell’edificio, campane gettate a terra, tombe profanate, celle dei monaci e cortili interni usati come stanze di tortura, prigioni e centri di assembramento e smistamento. Davanti al pericolo incombente, l’arcivescovo greco melkita di Aleppo, Jean-Clement Jeanbart, si è rivolto ancora una volta alla silente comunità internazionale: “Lo Stato islamico, che ha già assassinato migliaia di persone nella regione, sta terrorizzando i fedeli ad Aleppo. Dopo gli attacchi a Maloula, Mosul, Idlib e Palmira, costa aspetta l’occidente a intervenire? Che cosa stanno attendendo, i grandi paesi, per porre un freno a queste mostruosità?”.

Categoria Religione