“I leader musulmani condannino il terrorismo islamista”. Firmato Parolin

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Il segretario di stato vaticano: "Spetta a loro insegnare l'incompatibilità tra religione e violenza"

di Matteo Matzuzzi | 16 Gennaio 2016 ore 06:21 Foglio

Roma. “Di fronte all’uso della religione per giustificare la violenza, sono in primo luogo i leader musulmani a dovere condannare senza ambiguità tutti gli atti di terrorismo commessi in nome dell’islam. Spetta inoltre a loro insegnare chiaramente la totale incompatibilità tra violenza e religione”. Sono parole chiare quelle che il cardinale Pietro Parolin, segretario di stato vaticano, ha pronunciato nel corso dell’intervista concessa al settimanale spagnolo Vida Nueva. Finora, l’appello alle massime autorità islamiche perché deplorassero la persecuzione a danno delle minoranze (cristiani, yazidi ma anche musulmani) attuata dalle milizie califfali era stato rivolto dal cardinale Jean-Louis Tauran, responsabile dell’organismo che cura il dialogo interreligioso, ma sempre in occasione del messaggio annuale per il mese di Ramadan.

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Parolin riconosce che diverse personalità di fede islamica, a ogni latitudine del pianeta, “hanno denunciato e condannato il terrorismo e che in occasione degli attentati di Parigi di gennaio e novembre dello scorso anno ci sono stati musulmani che hanno compiuto gesti coraggiosi per salvare vite umane”, ma il senso delle sue parole sembra indicare che quanto è stato fatto non è ancora abbastanza. La chiesa, da parte sua, “deve continuare a impegnarsi nel dialogo interreligioso, perché oggi più che mai c’è bisogno di incontrarsi e di parlarsi”, ma – ha sottolineato il segretario di stato – “può fare di più per capire il fenomeno dell’estremismo e raddoppiare i suoi sforzi per colmare i vuoti generati dal nichilismo spirituale, soprattutto nel nostro mondo occidentale, evitando così che siano riempiti dall’odio e dalla violenza”. Il porporato, a tal proposito, osserva che alla base dell’escalation terroristica (con sempre più giovani attratti dalle sirene estremiste) “esistono ovviamente cause economiche, sociali e politiche, ma anche cause spirituali”.

La linea, seppur con i dovuti distinguo e le prudenze dovute al rango di Parolin e alla sua funzione diplomatica, dà credito a quanto da tempo vanno chiedendo le gerarchie cattoliche dei terroritori passati sotto il controllo jihadista. Il patriarca di Babilonia dei caldei, mar Louis Raphël I Sako, ha denunciato lo scorso anno l’atteggiamento passivo dell’ayatollah al Sistani, la massima autorità sciita irachena che si era rifiutata di condannare esplicitamente le violenze contro i cosiddetti infedeli. Lo stesso Sako, poche settimane fa, aveva definito “inevitabile” un intervento di terra con truppe straniere per eliminare la minaccia dello Stato islamico, benché avesse al contempo indicato che sradicare l’ideologia propria dei fondamentalisti sarebbe stato assai più arduo. Sulla possibilità di un intervento bellico in Iraq e Siria, Parolin non si è sbilanciato, ripetendo la linea già illustrata a più riprese anche in sede internazionale. “L’unico modo di combattere lo Stato islamico – ha detto – è nel quadro del diritto internazionale e l’organismo competente per decidere un intervento della comunità internazionale è il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il cui primo mandato è proprio il mantenimento della pace e della sicurezza nel mondo”. A ogni modo, chiosa, “credo che dobbiamo essere realisti in questi tempi difficili, riconoscendo con sincerità e umiltà che siamo tutti impauriti, chi più chi meno, da quello che è successo e purtroppo può riaccadere”. Ecco perché “è necessario che i responsabili del bene comune prendano tutte le misure di sicurezza atte a prevenire e a evitare gli attentati”.

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