Il dramma di un governo che trasforma in costi i benefici dell’Italia

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Acqua pubblica. La maggior parte delle aziende da espropriare si trovano nel centro-nord dell’Italia e quasi sempre vedono comunque i comuni come azionisti determinanti. A chi giova distruggere tutto questo?

Lettere Direttore15 Febbraio 2019 alle 05:54 www.ilfoglio.it

1-Al direttore - Che dire e che fare del blocco del traffico nelle città quando viene segnalato un aumento eccessivo nell’aria delle c.d. polveri sottili? O della chiusura dei centri storici? Oppure delle Ztl? Le auto non circolano e riducono il normale consumo di carburante. Ministro Toninelli come può tollerare questa perdita di accise al solo scopo di ridurre la Co2 e l’inquinamento? Il consumo di benzina è importante. Lo dica ai suoi colleghi che vogliono sospendere le trivellazioni.

Giuliano Cazzola

Quelli che per i grillini sono costi, ovvero lo sviluppo del paese, per l’Italia sono benefici, e il vero inquinamento di cui oggi si dovrebbero occupare gli elettori, prima ancora di quello ambientale, è quello politico, è quello generato dalle tossine diffuse ogni giorno dal paese da questo branco di simpatici incapaci.

2-Al direttore - Qualche giorno fa Salvini, commentando i risultati elettorali abruzzesi, ha escluso crisi, rimpasti e altre interruzioni. Il governo va avanti con il suo “contratto” fra i cui punti, c’è anche l’acqua pubblica. Detto per la verità con la bocca un poco storta. Fino a ieri pochi credevano che la Lega avrebbe lasciato via libera ai 5 stelle su un provvedimento che puzza di demagogia anche solo dal titolo. “Figurarsi se Giorgetti lascia passare una cosa di questo genere”, era la frase più ripetuta. Ma forse dopo la dichiarazione di Salvini le cose cambiano. Forse. Perché a un certo punto bisognerà fare i conti con le conseguenze di un’eventuale approvazione di questa misura. Cominciamo dagli aspetti economici. Solo gli indennizzi che vanno corrisposti alle aziende che oggi hanno sui loro libri i valori delle concessioni del ciclo delle acque ammontano a circa 15 miliardi di euro. Che vanno naturalmente rintracciati all’interno del bilancio pubblico. Sempre che quello che di fatto si configura come un esproprio non incorra in varie censure. Oltre a questo ci sono investimenti nell’ordine dei 3/5 miliardi all’anno, oggi finanziati dal cash flow operativo e dalla capacità di debito delle aziende. Che andrebbero a questo punto un’altra volta finanziati con denaro pubblico. Visto che il meccanismo previsto innanzitutto non remunera il capitale investito ed è inoltre evidente che non basterà cambiare la titolarità della proprietà, ma anche prevedere una decisa sforbiciata sulle tariffe applicate. E dove si trovano tutti questi denari pubblici? Ma la parte ancor più preoccupante, se possibile, riguarda l’assetto che ne deriverebbe. A chi dovrebbero essere trasferiti gli asset e le gestioni espropriati alle attuali aziende? A una miriade di “enti pubblici” di nuova costituzione, all’incirca uno per ogni provincia. Con il risultato di dare vita a molteplici probabili carrozzoni pubblici di dimensioni ridotte, perdendo ogni economia di scala, ogni competenza industriale complessa, ogni possibilità di innovazione tecnologica. Senza possibilità di investimenti significativi. Cancellando anni di polemiche contro il proliferare di società pubbliche. Tutto questo per che cosa? Oggi il settore del ciclo dell’acqua (captazione, acquedotti, fognature, depurazione) è regolato da un’Autorità pubblica che ne fissa tariffe e qualità del servizio. Ed è un buon esempio di efficacia della sinergia fra regolazione pubblica e gestioni private. I costi sono assai contenuti rispetto a quelli di altri paesi e le situazioni peggiori, prevalentemente collocate nel Mezzogiorno, sono proprio il frutto della sopravvivenza di gestioni pubbliche, che non hanno mai raggiunto una dimensione industriale efficiente. E a cui andrebbe estesa la frase una volta indirizzata all’acquedotto Pugliese (oggi molto migliorato) che sarebbe servito “più a dare da mangiare che da bere”. Ci sono voluti decenni perché il frammentato settore dell’acqua cominciasse in Italia ad assumere connotati dimensionali e industriali comparabili a quelli di altri paesi. Vari processi legislativi hanno spinto in questa direzione e oggi abbiamo diverse aziende, alcune quotate in Borsa, che svolgono un ottimo servizio e investono nel rinnovo delle reti e nel completamento del ciclo. Dietro lo slogan “acqua pubblica” si cela di fatto un ritorno senza senso alla situazione di alcuni decenni or sono, quando l’acqua era la Cenerentola dei servizi pubblici. La maggior parte delle aziende da espropriare si trovano nel centro-nord dell’Italia e quasi sempre vedono comunque i comuni come azionisti determinanti. A chi giova distruggere tutto questo?

Chicco Testa