CONTRARIAN. Lezioni americane (e portoricane) per il fallimento greco

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Oggi, come ogni lunedì, è andata in onda la mia rubrica "Oikonomia" su Radio Radicale

Un piccolo stato membro, da qualche settimana ammette pubblicamente che la cura a base di rigore fiscale e tasse non basta a rendere sostenibile il debito pubblico

di Marco Valerio Lo Prete | 06 Luglio 2015 ore 13:57 Foglio

Un piccolo stato membro di un’unione monetaria e che si affaccia su uno dei mari più belli del pianeta, con l'economia in caduta libera da tempo, una parte significativa della popolazione emigrata negli ultimi anni, e la leadership politica locale che da qualche settimana ammette pubblicamente che la cura a base di rigore fiscale e tasse non basta a rendere sostenibile il debito pubblico. Non è la descrizione della situazione attuale in Grecia, ma di quanto sta accadendo in questi giorni nello stato americano - più precisamente "territorio" - del Porto Rico. A fronte di tante e tali somiglianze, tuttavia, spicca una differenza tra gli eventi di queste ore in Grecia e Porto Rico: non si è assistito a nessuna fuga dai depositi bancari portoricani negli ultimi mesi, a nessuna corsa agli sportelli (elettronici o meno), nessuna fila di fronte agli istituti di credito di questo arcipelago situato nei Caraibi e sotto la giurisdizione americana. E' a partire da questo esperimento sociale a cielo aperto che economisti americani contemporanei, tra loro anche idealmente molto distanti come il liberal Paul Krugman e il liberista John Cochrane, sono tornati a ragionare sui limiti dell'Unione monetaria europea e su quanto la dottrina economica prescrive per una Unione monetaria meglio funzionante.

Il Premio Nobel Krugman ricorda che il Porto Rico ha avuto negli ultimi anni un forte calo del Prodotto nazionale lordo. Eppure, osserva Krugman, il prodotto pro capite è caduto meno di quello greco in ragione della emigrazione su larga scala. Per la precisione, dal 2005 al 2013 il Porto Rico ha perso il 5,5% della sua popolazione, che si è trasferita in zone più competitive degli Stati Uniti. Il tasso di disoccupazione nel 2008 era attorno all'11%, poi è schizzato fino quasi al 17% nel 2010-11, oggi è vicino al 12,5%, ma l'economista osserva che nonostante questo non c'è stato un collasso drammatico degli standard di vita degli abitanti. "Cos'è che sostiene i consumi?", si chiede Krugman. Risposta: "Un po' si tratta delle rimesse private dai portoricani che lavorano sulla terraferma e spediscono soldi a casa. Ma a sostenere i consumi è anche il federalismo fiscale [degli Stati Uniti]: mentre l'economia del Porto Rico crollava, i suoi pagamenti verso Washington sono automaticamente diminuiti, mentre sono aumentati i trasferimenti federali da Washington per i programmi di assistenza sociale; di conseguenza l'isola sta ricevendo una quantità di aiuti che sarebbero inconcepibili in Europa".

Cochrane, che insegna all'Università di Chicago, la pensa diversamente, anzi all'opposto. Ricorda che gli Stati Uniti con ogni probabilità non andranno al salvataggio del Porto Rico o dell'Illinois o dei creditori dei singoli stati in crisi; "le persone continuano a dire che una unione monetaria ha bisogno di una unione fiscale - scrive Cochrane - ma non è così". Se dunque non sono i trasferimenti fiscali da parte dello Stato centrale, cos'è che scongiura il rischio di uscita del Porto Rico dall'unione monetaria degli stati americani? "Risposta: perché Porto Rico non ha un suo proprio sistema bancario. Non può chiudere le banche. Le banche in Porto Rico non sono piene di debito portoricano, ergo i depositanti non sono in pericolo se il governo dello Stato è costretto al default. Il Porto Rico, come la Grecia, usa una moneta comune. Ma un'uscita del Porto Rico non è ipotizzabile, come non è ipotizzabile che una mattina le persone si sveglino e i loro conti in banca in dollari siano trasformati in conti convertiti in pesos portoricani. Per questo non hanno alcuna ragione per scendere in strada, correre agli sportelli e ritirare il contante". E quando il governatore del Porto Rico, Alejandro Garcìa Padilla, ammette al New York Times che sarà necessario ristrutturare il debito pubblico di 72 miliardi, comunque "anche le banche di New York non sono piene di debito portoricano. I regolatori bancari americani non hanno mai detto che quelle banche potessero pretendere che il debito portoricano è libero da ogni rischio. Di conseguenza se una banca portoricana fallisce, una qualsiasi grande banca statunitense può rilevarla e farla continuare a funzionare". Intendiamoci, scrive Cochrane, "un default dello stato portoricano può causare gravi problemi, esattamente come il crack di una grande società privata portoricana. Ma non indurrà una corsa agli sportelli, una crisi o una paralisi economica". La lezione dunque, secondo l'economista di Chicago, non è quella del "federalismo fiscale", ma sta nel fatto che "in una unione monetaria uno stato sovrano deve poter dichiarare fallimento, senza chiudere le banche, esattamente come succede per le società private. Le banche non devono essere piene di debito sovrano del proprio paese, perciò la regolamentazione bancaria deve trattare il fallimento sovrano esattamente come un default corporate. Può succedere, perciò le banche devono avere diversificato gli investimenti e devono essere capitalizzate a sufficienza per sopravvivergli".

Anche per Erik Jones, della Johns Hopkins University, che pure non cita il caso portoricano, "la prima e più importante lezione che arriva dalla Grecia è che le banche non dovrebbero fare eccessivo affidamento su capitale e collaterale che siano sostenuti e garantiti dai propri governi nazionali". Le banche elleniche nel 2014 superarono gli esami della Banca centrale europea (Bce) ma, "non appena è diventato chiaro che il governo greco avrebbe abbandonato il programma di aiuti della Troika a febbraio, la Bce ha rimosso la deroga introdotta nel 2010 che consentiva alle banche greche di rifinanziarsi offrendo asset garantiti dal governo come collaterale. Quella decisione ha spinto le banche greche a diventare dipendenti dalla liquidità d'emergenza (o Ela)". Conclude Jones: "Le banche greche sarebbero al sicuro se avessero avuto altro tipo di capitale o di collaterale a disposizione. Per come stanno le cose, invece, sono come il canarino nella miniera".

In una unione monetaria che racchiude Stati con esigenze molto diverse fra loro, occorrono "valvole di sfogo". La mobilità della forza lavoro tra stati diversi è una di esse, presente negli Stati Uniti e molto meno nell'Eurozona. Un governo federale che garantisca i cosiddetti "stabilizzatori automatici" della politica fiscale, come per esempio un sussidio comune di disoccupazione, è un altro possibile pilastro. Soprattutto, un'unione monetaria infine ispirerà maggiore fiducia se anche gli stati che la compongono possono fallire, senza automaticamente trascinare con sé le banche e i cittadini che vi hanno depositato i loro risparmi. Ma nemmeno una Unione monetaria che avesse tutte queste caratteristiche, come si vede dalla parabola del Porto Rico, avrebbe potuto di per sé garantire ai greci una economia competitiva e fiorente.

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