Lettere al Direttore 9.10.2015 Foglio

Categoria: Rubriche

Le unioni civili e il tentativo di normalizzare genitore a e genitore b

1-Al direttore - L’argomento omosessualità mi è venuto a noia.

Che si parla a fare di cose sulle quali gli interlocutori non si ascoltano? O meglio, sulla quale una parte ascolta l’altra, che non ascolta minimamente? Qualche valore ce l’ha, perché ci aiuta a chiarirci le idee, ma dopo un poco… Per me è chiaro che a proposito dell’omosessualità si pongono due questioni diverse: una antropologico-morale, e un’altra giuridica. Anche se pensassi, con l’American Psychiatric Association, che l’omosessualità debba essere cancellata dalla lista dei disturbi della sessualità, non per questo sarei favorevole al matrimonio omosessuale. Il matrimonio è la maniera con cui le diverse società regolano le unioni feconde tra uomo e donna, dalle quali si originano le parentele e con esse le identità personali. Equiparare le unioni omosessuali a matrimonio, è quindi un atto di prevaricazione legislativa e/o giudiziaria. Non prendiamo dunque le questioni nei loro aspetti particolari, ma andiamo al sodo: la sostanza della questione dell’omosessualità è filosofico-politica. E non c’è niente da fare: la democrazia è intrinsecamente omosessuale, perché intrinsecamente omosessuale è la filosofia dell’io su cui si basa: l’io (checché esso sia) infatti non ha sesso; e di conseguenza tenere legalmente in considerazione il sesso è discriminatorio e antidemocratico. Ma, poiché gli uomini sono naturalmente portati a tener conto della differenza sessuale (con tutto ciò che essa implica per la riproduzione umana attraverso la quale la società si preserva), allora è lo stato democratico a dover intervenire per proibire le discriminazioni. Ciò significa (per un sillogismo che non sto a esplicitare) che lo stato democratico è intrinsecamente totalitario.

Giorgio Salzano

Dal modo in cui i promotori italiani delle unioni omosessuali stanno tentando di approvare una legge che sostanzialmente equipara le unioni al matrimonio, emerge bene un altro tema importante che poi si trova al centro di tutta la questione: l’idea che, una volta approvata l’unione-matrimonio tra persone dello stesso sesso, sia possibile non solo riscrivere le coordinate della famiglia ma anche accettare il principio più che pericoloso che non ci sia più alcuna differenza tra mamma e papà e genitore a e genitore b.

2-Al direttore - La lista dei desideri della politica italiana verso l’Europa non è mai stata così corta. Due temi dominano i talk-show e il dibattito politico quando si parla di Europa: la flessibilità dei conti pubblici e l’emergenza migranti nel Mediterraneo. Eppure, sotto traccia, un’altra battaglia molto più profonda si sta giocando a Bruxelles: quella sul “tipo” di Unione europea che vogliamo per il prossimo decennio. Nei mesi scorsi Jean-Claude Juncker ha presentato il cosiddetto “Rapporto dei Cinque Presidenti” sul futuro della moneta unica europea. Difficile immaginare un tema più caldo vista la crisi greca, ma anche stavolta fuori dalla bolla brussellese le reazioni sono state poche, a partire dallo stesso presidente del Consiglio italiano. Sorprendente? In realtà non molto. Il futuro dell’euro è stato presentato come una questione di alchimia istituzionale, di procedure e trattati. Non è così. Le questioni istituzionali sono in realtà secondarie e la posta in gioco è molto più radicale: vogliamo continuare con un’Europa fondata su regole sempre più “rigide” con pochissimi spazi di manovra per governi e istituzioni europee, o vogliamo un’Europa più “politica” con ampi poteri discrezionali per rispondere di volta in volta ai problemi da affrontare? Una visione meno rigorista dell’Europa è attraente ma tutt’altro che semplice da realizzare. Senza ipocrisie, un’Europa più politica vorrebbe dire che più decisioni sulla nostra politica fiscale ed economica vengono prese da Commissione, Consiglio e Parlamento europeo. Una fetta maggiore delle tasse andrebbe a Bruxelles e i nostri rappresentanti (a Bruxelles) voterebbero su come spenderle (magari per ripianare i debiti di altri paesi). Pochissimi in Europa sono oggi pronti ad accettare un tale accentramento di poteri e risorse. In questa partita il ministro Padoan (con il collega francese Emmanuel Macron) sta portando avanti un gioco sottile. Al Consiglio europeo dei ministri dell’Economia di ieri il governo italiano ha rilanciato formalmente la proposta (che gira da oltre un anno) di un’assicurazione europea contro la disoccupazione. Padoan chiede un fondo comune che intervenga quando la disoccupazione in un paese cresce improvvisamente per ragioni congiunturali. La proposta prevede che tutto il meccanismo sia fissato in anticipo (risorse, condizioni, tassi di variazione della disoccupazione che attiverebbero il fondo, ecc.). Una volta fissate le regole, questa è l’idea, la macchina procederebbe da sé. Ciò permetterebbe di trasferire risorse da un paese all’altro ma solo in modo temporaneo, ciclico e automatico. Cioè senza discrezionalità politica. La proposta incontrerà l’invariabile opposizione della Germania ma intanto Padoan insiste nell’unica direzione possibile. La disoccupazione è un problema europeo e c’è bisogno di una risposta europea. Lo strumento proposto è “rigido” perché, in assenza di istituzioni comuni forti, la politica economica europea non può che avere margini di manovra super regolati. Dove sta l’Italia in tutto questo? Renzi appoggia il ministro dell’Economia ma non nasconde di non sopportare (e capire) Bruxelles. Non ha torto. La crisi dell’euro e la tragedia dei migranti in Europa dimostrano ancora una volta che la sola logica delle regole non basta per governare l’Europa. Che senso ha parlare di obbligo di identificazione nei paesi di primo approdo quando centinaia di migliaia di migranti attraversano il Mediterraneo e i Balcani per raggiungere la Germania e il nord Europa? Renzi vuole un’Europa più politica, dinamica e flessibile. Nessuno meglio di lui dovrebbe sapere però che la politica si basa su consenso e voti. Al tavolo del Consiglio europeo può servire sbattere i pugni di tanto in tanto, ma per cambiare verso all’Europa (e rivendicarne in Italia i successi) ci vuole il consenso di chi a quel tavolo ci siede. La burocrazia è più una conseguenza che una causa. Se i summit europei sono noiosi e parlano solo di regole è perché le ragioni della politica non hanno ancora fatto breccia. Renzi e Hollande hanno finora mandato avanti i rispettivi ministri dell’Economia ma se ora non vanno avanti loro non si muoverà più nessuno.

Umberto Marengo

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