CONTRARIAN Ecco come e quando l'Italia divenne un'economia matura, troppo matura

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Oggi, come ogni lunedì, è andata in onda la puntata della mia rubrica su Radio Radicale intitolata "Oikonomia".

di Marco Valerio Lo Prete | 18 Aprile 2016 ore 13:29 Foglio

La scorsa settimana – rifacendomi in particolare agli studi dello storico Paolo Malanima – ho detto che l’Italia, nel XVI secolo, era un’economia che si muoveva vicino alla propria “frontiera delle possibilità di produzione”. Un’economia trainante per tutto il Continente almeno fino all’inizio del Seicento, con il suo sistema urbano del centro nord dedito in particolare all’industria della lana, a quella della seta e al settore dei commerci di ampio raggio che includeva la navigazione, il commercio dei tessili e la banca.

Malanima, dopo aver stimato e calcolato in vari modi il pil pro capite di allora, arrivando a conclusioni di cui ho detto lunedì scorso, sostiene pure che l’economia italiana di fine 500 ha raggiunto la sua fase di “maturità”: “Sulla base dei livelli tecnici del tempo, una crescita ulteriore della popolazione, delle città, delle produzioni agricole e industriali, dei profitti commerciali, diventava sempre più difficile”. Spiega lo storico dell’Università di Catanzaro che questo “è il destino di ogni regione economica più avanzata. La combinazione tecnica dei fattori che ha creato il successo si dimostra poi incapace di un adeguamento elastico quando il quadro di riferimento cambia. Per chi si trova in posizione più avanzata, il cambiamento innovativo è sempre più difficile: si tratta non solo di creare il nuovo, ma anche di abbattere il vecchio. I costi opportunità di ogni operazione innovativa sono più elevati. Abbattere il vecchio – conclude Malanima in un suo libro intitolato “La fine del primato” – significa sempre modificare non solo equilibri economici, ma anche sociali, politici, culturali. La trasformazione non è indolore. Le strutture esistenti oppongono sempre resistenza”. Una situazione che all’ascoltatore potrebbe far pensare, per molti versi, allo stallo, economico e non solo, che attraversa l’Italia contemporanea.

Anche allora, tra l’altro, uno dei problemi maggiori era di natura demografica, seppure opposto all’attuale autunno delle nascite che sta facendo traballare il welfare pensionistico e non solo. “L’Italia alla fine del Cinquecento, con i suoi 13,5 milioni di abitanti, aveva raggiunto, in molte sue aree, una densità assai elevata. Verso il 1580 si era arrivati al livello già alto dell’inizio del Trecento. Poi questo livello era stato superato”. La densità media raggiunta nel paese, che oggi è di circa 200 abitanti per kilometro quadrato, era allora di 43 abitanti per km quadrato, e raggiungeva picchi di 83 abitanti per km quadrato nella Repubblica di Genova e di 80 nel Ducato di Milano. A parte il Belgio, in cui la densità era di 48 abitanti per kilometro quadrato, tutti gli altri paesi europei erano meno densamente abitati dell’Italia: in Francia c’erano 35 abitanti per kilometro quadrato, in Inghilterra e Galles 29. La densità abitativa italiana di inizio 600 sarebbe ancora più alta se venisse calcolata in rapporto agli arativi e non alle superfici complessive: mentre infatti la media europea è di 0,26 ettari di arativi per abitante, in Italia essa è di 0,15. Si ritiene che allora occorressero almeno 2 ettari di arativi, boschi e pascoli per far fronte ai bisogni energetici di ogni essere umano. Malanima, dopo aver stimato l’utilizzazione del suolo in Italia alla fine del 500, deduce da tutto ciò che “i 23 milioni di ettari (del nostro paese) sarebbero stati sufficienti per 11,5 milioni di persone. Nel 1600, con più di 13 milioni di persone, sarebbe già stato superato il livello della capacità portante”. Questa carenza di terra coltivabile incentivò opere di bonifica e in generale una ricerca, certo costosa, di terre più difficili da coltivare.

In questa situazione di “sforzo” del settore primario, diventavano più probabili e foriere di danni le crisi agricole dovute per esempio a banali vicende metereologiche. Secondo Malanima, inoltre, “la scarsità di terra influenzava, come sempre accade nelle economie preindustriali, la distribuzione dei redditi. Ricardo, in particolare, delineò il meccanismo che opera in questi casi. Il fattore che diventa sempre più scarso, la terra, aumenta di prezzo. La rendita, di conseguenza, si accresce, sottraendo risorse ai lavoratori e agli affittuari. Una quota in aumento del surplus sociale confluisce, così, nelle mani di chi ha poco interesse a impiegarla in forma produttiva e defluisce da quelle di chi è più interessato all’aumento della produzione agricola”. Il tutto mentre il prezzo del grano ovviamente aumentava, seppure di poco.

“Anche nel caso delle attività industriali e commerciali urbane – prosegue lo storico –  si profilavano però difficoltà nuove. Nell’industria i paesi inseguitori si avvicinavano sempre di più. Il vantaggio dell’Italia si riduceva. Nel settore della lana l’Inghilterra stava diventando un temibile concorrente. (…) La sua produzione di tessuti era cresciuta durante tutto il Cinquecento. L’orientamento, dalla fine del secolo, verso tessuti più leggeri e di prezzo più basso la favoriva nei mercati dell’Europa centrale e anche in quelli mediterranei. A nord anche l’Olanda si veniva orientando verso quel tipo di produzione. (…) Per le città italiane era difficile competere su questo terreno dei tessuti a buon mercato. Si trattava di un’innovazione di prodotto che, nel quadro della tecnologia del settore tessile, poteva essere attuata là dove i salari erano relativamente bassi. (…) Come sarebbe stato possibile produrre tessuti competitivi usando materie prime di costo basso insieme a manodopera qualificata ma cara?”.

Se a ciò si unisce l’apertura di rotte esterne al Mediterraneo, che interessavano maggiormente l’Olanda e l’Inghilterra, assieme alla sfida ben diversa costituita dalla difficoltà di smaltire i rifiuti creati dal ciclo metabolico del nostro paese, con gli annessi problemi di igiene e l’incremento di probabilità di malattie come la peste, si capisce bene che questa fase di “maturità” di un’economia da primato come quella italiana non poteva che sfociare, nel Seicento, in una crisi vera e propria.

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