Ma le api? Vero? Falso. Esagerato?

Il 90% dell’impollinazione è entomofila, il resto anemofila, poi ci sono altri modi, gli uccelli (il Colibrì), animali, corsi d’acqua. Mi confermi questi dati?

Redazione Web 07/05/2021 ** prof.Mauro Mandrioli, ilfoglio.it

Come funziona l’impollinazione? Il 90% dell’impollinazione è entomofila, il resto anemofila, poi ci sono altri modi, gli uccelli (il Colibrì), animali, corsi d’acqua. Mi confermi questi dati?

Complessivamente circa il 90% delle piante usa un animale per trasferire il polline durante l’impollinazione. Questi animali (che sono effettivamente spesso insetti) sono anche definiti pronubi, proprio perché permettono l’incrocio tra due piante. Per gli antichi Romani, con questo termine si indicava chi assisteva lo sposo nella cerimonia nuziale, oggi siamo meno formali e ci interessa solamente che le piante si incrocino, perché senza impollinazione non avremmo molti dei frutti che servono all’alimentazione umana. Non è un caso che molte piante abbiano fiori vivacemente colorati, riuniti in infiorescenze vistose che emanano profumi inebrianti. Comunque, quando si pensa agli impollinatori i primi animali a venire in mente sono generalmente le api da miele, quelle che gli scienziati chiamano Apis mellifera. Questo abbinamento è così forte che molto spesso quando si parla di impollinatori, tantissime persone (anche nei media) pensano subito (e solo!) alle api. Tuttavia, se vogliamo parlare di impollinatori, alle api domestiche dobbiamo aggiungere tra cento e duecentomila diverse specie animali in grado di agire da impollinatori. Solo il quindici per cento dei vegetali si “appoggia” in realtà alle api domestiche e per giunta non in forma esclusiva: molte piante preferiscono infatti affidarsi contemporaneamente a più “servizi di trasporto”. A livello globale, comunque, il 75% delle principali colture agrarie si basa sull’impollinazione operata da animali, mentre in Europa la produzione di circa l’80% delle 260 specie coltivate dipende dall’attività degli insetti impollinatori. Se ci riferiamo invece alle sole api domestiche effettivamente le piante che dipendono solamente da loro sono poche. Volendo fare un elenco possiamo considerare le api domestiche essenziali per kiwi, frutto della passione, sorbo, anguria, zucca e zucchine, mentre per molte altre piante le api domestiche sono importanti, ma anche bombi e api solitarie danno un contributo decisamente rilevante. Ad esempio, per impollinare i pomodori in serra si preferiscono i bombi alle api.

A partire dai primi anni del 2000, primariamente negli Stati Uniti ma anche in alcune nazioni europee (tra cui Francia, Belgio, Svizzera, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia e Spagna), vi è stata una importante diminuzione delle popolazioni di api. La moria di api negli USA è stata sicuramente la più significativa e si è iniziato a parlare di sindrome da spopolamento degli alveari (dall’espressione inglese Colony Collapse Disorder o CCD) per indicare quanto stava accadendo. Sono stati condotti numerosi studi nel corso degli ultimi 15 anni per capirne le cause, ma ad oggi mancano risultati conclusivi. È abbastanza diffusa l’idea che la CCD derivi da un insieme di più fattori, che comprendono sia la diffusione di patogeni e parassiti delle api, che la presenza nell’ambiente di alcuni principi attivi verso cui le api domestiche sono particolarmente sensibili. Secondo alcuni ricercatori anche la frammentazione degli habitat, la presenza di estese monocolture e il nomadismo (molto comune in particolare negli USA dove le api sono spostate per centinaia di chilometri per impollinare ampie aree coltivate) sono parte del problema. L’Italia ha avuto alcuni problemi, ma la perdita è stata fortunatamente più contenuta rispetto alle altre nazioni europee: ci sono stati alcuni casi che hanno avuto ampio risalto mediatico, ma anche in questi casi non sono state identificate cause univoche.

Puoi fare un elenco di probabili cause?

In alcuni anni la causa primaria è stata la presenza di alcuni patogeni (tra cui un virus che deforma le ali delle api), mentre in altri casi la causa sembra essere l’utilizzo non corretto di alcuni agrofarmaci. Lo scorso anno, ad esempio, in Friuli c’è stata una segnalazione di molti casi di api morte ed era stato suggerito che la causa fosse da ricondurre a una mancata cautela nell’uso del Mesurol 500, un composto usato per conciare i semi di mais che contiene il Methiocarb, sostanza nota per avere un tasso elevato di tossicità per le api. Da quanto ho però letto all’inizio di quest’anno, adesso gli esperti parlano di diffuso inquinamento ambientale da fitofarmaci come primaria causa della moria. Sarà interessante vedere i risultati di queste analisi per capire cosa è realmente accaduto. Negli altri continenti, ad oggi non sono state registrate morie di api in Asia e Africa e, su scala globale, i dati della FAO ci mostrano che gli apiari sono in continuo aumento dagli anni ’60 ad oggi. Comunque, ad oggi, la situazione è migliorata in molte nazioni, tra cui anche negli USA, dove negli ultimi anni le perdite, seppure ancora presenti, sono divenute meno diffuse. Dopo aver condotto un’analisi dei dati scientifici, l’EFSA, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, ha affermato che non sussistono dubbi sul fatto che tre neonicotinoidi (clothianidin, imidacloprid e thiamethoxam) sono pericolosi sia per le api mellifere che quelle selvatiche. Nelle settimane scorse la Francia ha annunciato che rivedrà questa decisione, perché non potendo usare i neonicotinoidi molti agricoltori hanno trovato i propri campi pesantemente invasi da afidi, per cui le produzioni sono state decisamente scarse. Quanto accaduto in Francia per me è interessante da un punto di vista pratico perché ci ricorda che in natura non esistono pasti gratis e che gli insetticidi sono essenziali per una agricoltura produttiva. Certamente dobbiamo usarne il meno possibile e serve seguire regole precise, oltre che nuovi strumenti per liberarli nell’ambiente. Questi risultati li possiamo oggi ottenere ricorrendo all’agricoltura di precisione: non basta vietare, serve innovare.

***Mauro Mandrioli, Professore Associato in Genetica all’Università di Modena e Reggio Emilia

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