L’ultimo lupo grigio nel Bellunese, abbattuto nel 1929 in Comelico: la conferenza del professor Semenzato sul ritorno del predatore sulle Alpi

La stessa ingenuità non scientifica, soggettiva poiché spinta da aspetti etici morali, sul dubbio se il lupo sia “buono” o “cattivo”, è quella che oggi spesso anima il dibattito sul ritorno del lupo sulle Alpi. Innanzitutto, è necessario saper distinguere un lupo da altri cani

LUCA VECELLIO 20.8.2022 Qdpnews.it lettura 4’

Una foto del 24 maggio 1929, scattata a Malga Campo Bon in Comelico (in provincia di Belluno), mostra l’uccisione di quello che si presume esser stato l’ultimo esemplare di lupo grigio nella zona.

Gli uomini con il fucile, con la belva domata ai propri piedi, indossano una cravatta per l’occasione e guardano fieri in camera. Osvaldo e Antonio, detto Tunin (anche nella seconda foto, con il lupo sulle spalle), avevano dato la caccia al predatore per giorni, in quanto colpevole di aver sbranato oltre venti pecore, che al tempo erano considerate una ricchezza capace di sostenere ben più d’una famiglia.

Era del tutto usuale, anche per le popolazioni dell’Appennino e del Sud Italia (così come in altre zone popolate da questi canidi), ingaggiare degli esperti con delle taglie per tracciare, inseguire e abbattere esemplari che avevano predato gli animali da cortile: non a caso si parla di “lupara”, una doppietta a canne mozze resa celebre dai film sulla malavita siciliana.

Gli autori di questi abbattimenti non erano consapevoli del numero di lupi presenti nei boschi del Veneto o, anche se avessero saputo, sarebbero stati lieti di sapere che i predatori stessero sparendo e che i propri capi sarebbero finalmente stati al sicuro.

La stessa ingenuità non scientifica, soggettiva poiché spinta da aspetti etici morali, sul dubbio se il lupo sia “buono” o “cattivo”, è quella che oggi spesso anima il dibattito sul ritorno del lupo sulle Alpi.

Ne parla al pubblico del Teatro Kursaal di Auronzo di Cadore il professor Renato Semenzato, biologo esperto di grandi mammiferi e autore del master universitario che propone un metodo scientifico per affrontare quello che è, a tutti gli effetti, un problema di convivenza tra due predatori, l’uomo da una parte e il lupo dall’altra.

L’incontro è stato organizzato dalle Magnifiche Regole di Auronzo con il patrocinio del Comune. “Innanzitutto, è necessario saper distinguere un lupo. Vedere la sagoma di un canide nell’oscurità non significa vedere per forza un lupo. Voglio vedere quanti riuscirebbero a distinguere una cerva femmina da un daino o un capriolo da un muflone femmina” ha affermato, portando l’esempio dello sciacallo dorato, per anni abbattuto nel Goriziano con la convinzione si trattasse di una volpe, distinguibile per il suo caratteristico “caracollare” e per la sua dimensione leggermente più grande. “Oggi riusciamo a distinguere il lupo italiano (canis lupus italicus) e questo è già un grande successo”.

È possibile riconoscere un lupo grazie ad alcuni parametri precisi: due bande nere sulle zampe anteriori, una guancia grigia con una mascherina bianca all’altezza della mandibola, orecchie corte a forma triangolare a base larga, la fronte sfuggente con gli occhi in posizione frontale e la coda con dei bandeggi scuri sulla punta.

“È successo spesso, anche recentemente in Lessinia, che alcune razze di cane, come il lupo cecoslovacco, sia stato scambiato per un lupo vero e proprio. “Tutte le 434 razze del cane discendono dal lupo e ce ne sono alcune, con la selezione fatta da noi nella storia, che possono assomigliargli. Dipende un po’ dalla moda del momento, quando è uscito il film “La carica dei 101 tutti avevano i dalmata”.

“I pesi medi del lupo arrivano a 40 chilogrammi al massimo, quindi, i lupi enormi che vedete nei documentari provengono dall’Alaska o dalla Russia. Sono effettivamente più grossi, così come hanno un peso maggiore i caprioli e i cervi. È la regola di Bergmann: ti conviene essere più grande per disperdere meno calore”.

“Fino agli anni ’70 la fauna selvatica era ‘res nullius’, ovvero cosa di nessuno: il lupo era considerato nocivo e non aveva nessun valore – ha spiegato l’esperto – Nel secondo dopoguerra la nostra società era ai minimi termini e ne ha pagato le conseguenze non soltanto il lupo ma l’intera fauna selvatica. Il lupo si è salvato nell’appennino centromeridionale (si stima appena un centinaio di esemplari), mangiando nelle discariche a cielo aperto (sì, perché già esisteva il problema dello smaltimento dei rifiuti). Negli anni ’80 si inizia a proteggere queste specie nei parchi nazionali e le condizioni generali della fauna selvatica migliorano: così il lupo ne trae ovviamente dei benefici”.

Il ritorno del lupo sulle Alpi è tuttavia legato a un fenomeno ancora più attuale che Semenzato spiega mostrando l’immagine della stessa montagna, prima nel 1945 poi nel 2004: “Dagli anni ’70 l’Italia ha vissuto un fortissimo spopolamento delle aree appenniniche e di tutte le aree montane. È un fenomeno ancora in corso anche oggi. Se guardiamo le statistiche di quante persone emigrano dalle zone montane a quelle planiziali, comprendiamo come il bosco, non più tagliato, non più coltivato, non più pascolato, si è ripreso. Non si può parlare ancora di foresta, ma di un bosco giovane, capace di dare una grande ricchezza agli ungulati, caprioli, cervi e cinghiali, e di conseguenza prede per il lupo”.

(Foto: Qdpnews.it © riproduzione riservata).

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