CATTIVI SCIENZIATI Qualche verità sull'uso eccessivo di antibiotici negli allevamenti italiani

L'Italia è al terzo posto in Europa per consumo di antibiotici rispetto alla carne prodotta. Un rischio tanto per il nostro paese quanto per le comunità confinanti
29.4.2023 Bucci ilfoglio.it lettura3’

Sullo stesso argomento:
No alla carne sintetica? Prima chiediamoci cosa c'è di naturale in un allevamento intensivo

Per evitare una “bomba biologica” vanno chiusi gli allevamenti intensivi di visoni

Aseguito delle sue dichiarazioni televisive circa l’uso di antibiotici negli animali di allevamento e il pericolo che questo costituisce, Roberto Burioni si è trovato al centro di una fitta sassaiola verbale, proveniente da numerose associazioni con diretti interessi nell’industria zootecnica italiana. Si tratta di una reazione ovvia, e naturalmente è lecito tutelare i propri interessi diretti, anche quelli economici; tuttavia rimane il fatto che, a fronte di incontrovertibili dati Ema circa il consumo di antibiotici nelle nazioni europee normalizzato rispetto alla carne prodotta, l’Italia, almeno nel 2021 risultava terza dopo Cipro e Polonia, e i dati disponibili nei rapporti precedenti indicano come questa non sia un’eccezione. Questi numeri necessitano di una spiegazione, perché per chi, come me, non è del settore, è necessario comprendere come mai il consumo veterinario di molecole quali gli antibiotici sia così tanto elevato in Italia, rispetto ad altre nazioni, anche tenendo conto del tipo di animali allevati; le spiegazioni, come i fattori confondenti, possono essere molte, ma il consumo in tonnellate fatto nel nostro paese a fronte della carne prodotta è un dato incontrovertibile, che porta ad ulteriori considerazioni, come mi proverò ad illustrare di seguito.

Molte volte, abbiamo già mostrato come, a livello microbico, l’informazione genetica sia rapidamente condivisa, in una sorta di “world wide web” fondata sullo scambio veloce di pezzi di Dna e sulla selezione di quelli utili da parte delle cellule ricettrici, a partire anche da organismi molto lontani filogeneticamente, spazialmente e persino temporalmente (con acquisizione di tratti di Dna provenienti da cellule vecchie di milioni di anni, i quali per condizioni particolari abbiano passato la prova del tempo). Adesso, un nuovo tassello si aggiunge, uno che fa immediatamente comprendere come la selezione di tratti di Dna dovuta a condizioni localizzate può letteralmente volare da un angolo all’altro del globo. È stato infatti appena pubblicato un lavoro che, a partire da dati raccolti in Francia, ha dimostrato come campionando le nuvole, e precisamente l’acqua in esse presente, è possibile recuperare una notevole quantità di cellule batteriche. Questo fatto, per chi segue queste pagine, non è particolarmente nuovo; abbiamo visto già in precedenza come esistono addirittura batteri adattati ad utilizzare le nuvole come mezzo di trasporto e disseminazione su lunga distanza. In particolare, le analisi dei ricercatori hanno mostrato come i campioni contenevano in media circa 8 mila batteri per millilitro di acqua, arrivati nelle nuvole attraverso diversi processi in grado di trasformare in aerosol gli ambienti in cui vivono solitamente a terra. Le concentrazioni trovate variavano notevolmente, da 330 a più di 30 mila batteri per millilitro di acqua di nuvola; inoltre, tra il 5 per cento e il 50 per cento di questi batteri risultavano integri, e dunque potenzialmente vivi.

Il punto cruciale del nuovo lavoro è però un altro: misurandone la concentrazione di 29 tipi diversi, le nuvole contenevano, in media, 20.800 copie di geni di resistenza agli antibiotici per millilitro di acqua. Inoltre, nuvole di diretta provenienza oceanica e nuvole di tipo continentale sono risultate ciascuna contenere un profilo diverso di resistenza agli antibiotici. Questo dato, se ulteriormente confermato da studi successivi, è davvero significativo: implica infatti un modo di diffusione della resistenza agli antibiotici molto più efficace ed ubiquitario di quanto sin qui sospettato. Questo meccanismo di diffusione è tale da comportare un’ancora maggiore armonizzazione delle pratiche nei diversi paesi: se Dna batterico, non importa se in cellule vive o morte, può diffondere le resistenze (e altri tratti più o meno pericolosi) ai quattro angoli del globo per via aerea, questo significa che quanto si fa in India, ad esempio, è significativo per paesi anche molto distanti. A maggior ragione, il grande uso di antibiotici documentato in Italia (considerando, in questo caso, la quantità assoluta di antibiotici utilizzata per gli animali) può mettere a rischio anche tutti quei paesi che, nell’Unione Europea, facciano un uso molto più moderato di antibiotici; e lo stesso, naturalmente, vale per paesi come la Polonia o altri grandi consumatori di tale tipo di farmaci.

Dunque, ricapitoliamo: a partire dai dati Ema, è possibile identificare un alto consumo di antibiotici per uso veterinario in certi paesi, fra cui l’Italia. Questo uso indubitabilmente è connesso alla selezione di resistenze nelle specie batteriche più svariate, per una semplice e ben consolidata legge di natura; a causa poi di meccanismi di diffusione su lunga distanza del Dna di qualunque tipo di batterio, e specificamente, come dimostrato nello studio qui discusso, di sequenze in grado di conferire resistenza agli antibiotici, l’uso da parte dei paesi che consumano maggiormente antibiotici è proporzionalmente quello che mette a maggior rischio non solo quei paesi, ma l’intera comunità delle nazioni ad essi confinanti (come minimo). Ed è molto, molto difficile immaginare come le scelte veterinarie di un certo paese, fatte per garantire al massimo la filiera dell’allevamento e l’economia di quel paese, possano poi giustificare eventuali danni arrecati in paesi che di quella filiera e di quelle ricadute economiche non beneficeranno.

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata